I FENOMENI di POSSESSIONE – vedi: POSSESSIONE 1
La possessione è stata definita “una particolare condizione personale o collettiva che si presenta come occupazione dello spirito o della presenza vitale individuale da parte di realtà estranee, rappresentate come potenze impersonali o personali (dèi, demoni, spiriti di defunti, spiriti naturali, spiriti di animali, ecc.)” (di Nola, 1972, 1736) e per queste sue caratteristiche è opposta all’estasi (1), che è invece un “salire dell’anima“, un “uscire dell’anima“.
Secondo Alfonso di Nola (1972) i due fenomeni si sviluppano spesso parallelamente nella stessa personalità religiosa, per esempio nei casi in cui la possessione, come occupazione dell’anima da parte di una potenza, è preceduta da forme di estasi, di “svuotamento” dell’individualità fisica (di Nola, 1972, 1737).
Gli stessi fedeli del vodu per spiegare la trance del posseduto affermano che lo Spirito (loa) entra nella testa dell’eletto dopo averne scacciato il “grande angelo buono”, una delle due anime presenti nell’uomo (Métraux, 1955).
Anche Luc de Heusch (1971) definisce la possessione sulla base della sua opposizione allo sciamanesimo.
due fenomeni gli appaiono infatti inversi. Lo sciamanesimo è una “démarche ascensionnelle”, un “viaggio verso dio” dell’anima, reso possibile dall’esistenza di un’asse del mondo. L’anima dello sciamano, dopo aver abbandonato il corpo, sale al cielo o scende agli inferi e, secondo un tema costante, lotta contro gli dèi per riconquistare “l’anima rubata” di cui il malato è stato privato.
Lo sciamano conserva quindi l’integrità della sua personalità psichica. La possessione comporta al contrario una “discesa degli dèi” e una “incarnazione” nel corpo del posseduto, il quale è quindi totalmente invaso dal dio che si sostituisce alla sua normale personalità.
Nelle loro forme pure i culti di tipo sciamanico sono propri delle popolazioni mongole e amerindie; i culti di possessione autentici caratterizzano invece il mondo nero, tanto in Africa che in America (Luc de Heusch, 1971, 228).
Secondo l’interpretazione di Erika Bourguignon (1983), è la società a “scegliere” il tipo di trance da adottare e compie tale scelta in base alle tensioni e al tipo di economia di sussistenza caratteristiche della società stessa. Le società di cacciatori, come quelle americane, in cui sono i maschi ad essere caricati di particolari tensioni e responsabilità, sarebbero legate infatti alla “trance allucinatoria” o “di tipo maschile” (caratteristica dei maschi), mentre nelle società africane, basate sull’agricoltura e caratterizzate dall’inferiorità sociale delle donne, è presente la “trance da possessione” o “di tipo femminile” (caratteristica delle donne).
Alfonso di Nola (1972) distingue poi due forme fondamentali di possessione: una possessione da parte di potenze negative, ingeneranti il male, la malattia e la morte (2) e una possessione positiva che realizza invece il contatto dell’uomo con le potenze divine benefiche. Nella possessione negativa o “invasamento” la presenza vitale può essere messa in crisi dallo spirito di un defunto che non ha ancora raggiunto la condizione di antenato, da un dio offeso da un comportamento riprovevole dell’uomo (che ha infranto ad esempio una norma sociale tabuizzante, una norma religiosa o rituale), da spiriti maligni o da atti di stregoneria.
La possessione positiva permette la “discesa” del dio tra i fedeli ed è destinata alla divinazione, alla salvezza individuale e di gruppo, alla guarigione. Nella possessione tromba, caratteristica del Madagascar, il contatto con il soprannaturale è spesso utilizzato per risolvere situazioni conflittuali che si verificano all’interno della società e che non possono essere risolte razionalmente; sarà quindi lo spirito ad indicare le azioni da compiere (Baré, 1977).
In entrambi i tipi di possessione la presenza dello spirito nell’eletto è segnalata dalla malattia. Mentre nel caso di una possessione “malefica” o “inautentica” si deve procedere ad un allontanamento (esorcismo) dello spirito, nella possessione “benefica” o “autentica” la presenza esterna è accettata come un bene e la cura sarà quindi un adorcismo; lo spirito viene infatti “assunto” attraverso un rito di iniziazione (Luc de Heusch, 1971).
La possessione positiva si ritrova ad esempio presso gli etiopi di Gondar (Leiris, 1989), nel vodu haitiano (Métraux, 1971), nel trombamalgascio.
In questo tipo di possessione lo spirito si manifesta spesso attraverso una malattia, ma la sua presenza può essere annunciata al posseduto anche in sogno o durante un rito religioso. La malattia può essere guarita solo nel corso di una cerimonia appositamente organizzata durante la quale, con l’aiuto di un medium, lo spirito responsabile si manifesterà nel corpo del posseduto.
Al di là dell’aspetto terapeutico, il quale sia ad Haiti che presso i Sakalava passa in secondo piano, la cerimonia è ritenuta conferire al corpo un nuovo vigore procurando degli effetti benefici (Luc de Heusch, 1971).
Generalmente le cerimonie di possessione si svolgono in un quadro spazio-temporale preciso, che include il luogo, le decorazioni, i personaggi, i colori, i suoni. Il medium (3) conduce la cerimonia, invoca gli spiriti e sorveglia le manifestazioni della trance dei fedeli.
Contrariamente a ciò che avviene nel rito cattolico, in cui l’officiante è l’attore principale e unico, e i fedeli sono dei semplici spettatori (Luc de Heusch, 1971), nelle cerimonie di possessione gli eletti e tutti i presenti partecipano attivamente al rito.
Questo si svolge in uno spirito di “festa popolare” che sorprende gli occidentali abituati alla gravità del culto cristiano: i fedeli parlano e scherzano continuamente, consumano abbondantemente cibo e bevande alcoliche (Schott-Billmann, 1977).
Anche il corpo assume in questi riti un ruolo opposto a quello che gli è destinato nel rito cattolico. Il corpo è innanzitutto il veicolo del dio e durante la possessione esprime con movimenti, gesti e parole le caratteristiche dello spirito che ospita.
Il corpo è inoltre coinvolto nelle danze sfrenate e nei contorcimenti spasmodici che caratterizzano la trance (4), la quale segna sia l’arrivo che la partenza dello spirito. Secondo la prospettiva cattolica la sregolatezza dei sensi nella comunicazione con il sacro è di essenza diabolica; infatti “la preghiera cattolica è, sul piano spirituale e fisico, preparazione alla morte ed esige umiltà e raccoglimento e silenzio del corpo” (Luc de Heusch, 1971, 226).
Spesso, come avviene anche nella macumba brasiliana (Lapassade, 1980), prima della fine della trance c’è una fase dedicata alle consultazioni, in cui i posseduti danno consigli o prescrivono rimedi alle malattie a chiunque dei presenti lo richieda.
Con la fine della trance e la partenza dello spirito, il posseduto, ridiventato se stesso, non si ricorda più di niente e ritorna alle sue occupazioni profane, mentre i fedeli si disperdono. Al momento della partenza dello spirito, nel vodu haitiano il viso del posseduto viene coperto da un fazzoletto per rispetto al dio (Métraux, 1955), mentre in Madagascar lo spirito tromba si scatena in un’ultima danza alla fine della quale il posseduto cade a terra sfinito con il viso coperto dalle mani (Rusillon, 1912).
Come è stato sottolineato da Lapassade (1990) (5) e da Bourguignon (1983) le forme e i contenuti della trance non sono spontanei ma riflettono il modello appreso e differiscono quindi da cultura a cultura. In Etiopia ad esempio il movimento caratteristico della trance è il cosiddetto gurri, ritenuto il segno della vittoria del genio Zâr sulla personalità del posseduto (Leiris, 1989); la danza dei tarantati riproduce invece il modo di muoversi del ragno-possessore (De Martino, 1961).
Al di là delle sue apparizioni nel corso delle cerimonie religiose, lo spirito non abbandona il posseduto e la sua costante presenza, sotto forma di “possessione latente” (Schott-Billmann, 1977), è indicata da alcune evidenti somiglianze con il carattere del posseduto (Leiris, 1989) e da numerosi altre manifestazioni, quali poteri di chiaroveggenza, di guarigione o di stregoneria. Come affermano Bourguignon (1983) e Lapassade (1980) non esiste quindi necessariamente equivalenza tra possessione e trance, dal momento che in alcune culture africane (6) vi può essere l’una e non l’altra.
Oltre che nelle cerimonie rituali, nella malattia e nel sogno, lo spirito si manifesta anche attraverso delle trance “selvagge” che scoppiano improvvisamente nella vita quotidiana dei fedeli. È proprio in tali circostanze profane che secondo Métraux (1955) si evidenzia il ruolo psicologico della possessione, che viene usata in questi casi come meccanismo di fuga dalla sofferenza (Estrade, 1977) o da situazioni disagevoli (Métraux, 1971).
Mentre presso gli Yoruba si è posseduti da una sola divinità (Bastide, 1972), nei culti vodu e tromba una persona può essere invece posseduta da più spiriti, anche se è consacrata ad uno solo. Nel vodu (Métraux, 1971) il loa-tête è lo spirito che ha posseduto per primo un individuo e che è divenuto il suo protettore; nel tromba i posseduti-saha sono dei posseduti riconosciuti dalla comunità come vere e proprie controfigure di un determinato spirito e per questo motivo godono di maggiore importanza rispetto ai posseduti ordinari.
Il legame personale tra il posseduto e lo spirito che lo abita si stabilisce solo al termine di una lunga preparazione che avviene attraverso un’iniziazione. Il rito, che viene celebrato sotto la guida del medium, oltre ad assicurare la protezione dello spirito, comporta la conoscenza delle “cose sacre”, quali la divinazione, la magia, la medicina, la vita e le caratteristiche degli spiriti, le tecniche del corpo necessarie a provocare la trance (Schott-Billmann, 1977).
Nell’iniziazione haitiana del kanzo la fase della “morte simbolica” e quella della “rinascita” sono interrotte da un periodo di reclusione (“di margine”) particolarmente lungo e severo (Métraux, 1971).
Dopo l’iniziazione il posseduto continuerà ad essere “cavalcato” dagli spiriti, ma le crisi avverranno tradizionalmente, si inscriveranno in un complesso mitologico e saranno quindi “controllate dalla società” (Bastide, 1972).
La possessione positiva può assumere l’aspetto di una possessione “spontanea”, come in alcuni momenti critici dell’esistenza (Estrade, 1977) o come capacità eccezionale in alcune grandi personalità religiose, ma più frequente è il caso delle possessioni “provocate” (di Nola, 1970). Gli “stimoli provocatori” sono numerosi e mirano a generare “concentrazione, meditazione, eccitazione sensoriale, entusiasmo, abbandono, perdita della coscienza e della presenza vitale” (di Nola, 1970, 1264). Vengono a questo scopo utilizzati ad esempio i liquori fermentati, le droghe, la danza, i suoni e i rumori intensi, la musica, la fumigazione, movimenti rapidi e circolari della testa, i colori (De Martino, 1961).
Per alcuni autori (Carpitella, 1961) la musica del tamburo per la sua ripetizione crea uno stato analogo all’ipnosi. Rouget (1980) ha criticato le ipotesi che legano la trance di possessione alla dimensione musicale, dal momento che non è possibile stabilire una relazione di causa effetto tra queste due dimensioni. La musica ha più una funzione di “socializzazione” che di scatenamento della trance ed ha per obiettivo essenziale quello di far identificare il gruppo con una divinità. La musica e la danza contribuiscono per Rouget (1980) a “distanziare” il rituale, cioè a situarlo nella sfera del sacro, suscitando così una forte partecipazione emotiva, ma non sono indispensabili all’induzione della trance.
Nella maggior parte dei culti di possessione ogni spirito è definito con tratti specifici (colore preferito, mestiere, elementi caratteristici del vestiario, uno stato civile, un’età ben determinata) che si ritrovano nel comportamento della persona posseduta.
Il panteon di questi spiriti non è fisso e può trasformarsi secondo i cambiamenti socio-economici della società.
Per esempio le divinità originarie dell’Africa, presenti nei culti vodu, una volta trasferitesi nelle regioni afro-americane in seguito alla tratta degli schiavi, hanno dei caratteri diversi e qualche volta opposti a quelle del paese di origine e questo a causa dell’adattamento a condizioni storiche e culturali nuove. Il vodu haitiano si ritrova sotto altri nomi (macumba, candomblé, santeria) in Brasile e a Cuba dove ha conservato con più rigore che in Haiti le tradizioni africane (Métraux, 1955). Inoltre nuove divinità appaiono localmente, quale risultato di sincretismi religiosi (Mars, 1962; Métraux, 1955).
Gli spiriti, quale che sia il loro sesso, si incarnano indifferentemente in uomini o in donne che, attraverso gli abiti cerimoniali e il proprio comportamento, indicano tale cambiamento. Questa ambivalenza sessuale è presente alle origini di molte cosmogonie africane (come quella sakalava illustrata da Jaovelo-Dzao -1996) e caratterizza la personalità divina.
L’inversione rituale presente nei riti di possessione è stata interpretata come un’occasione per esprimere la parte femminile dell’uomo e inversamente la parte maschile della donna (Breton, 1989). Secondo Scott-Billmann (1977) la possessione può essere anche un mezzo per dare libero sfogo alle tendenze omosessuali, come avviene ad Haiti dove, secondo questa interpretazione, tutti gli individui maschi che servono Erzulia sono degli omosessuali dichiarati. Il loro comportamento durante la cerimonia non sfocia mai in una relazione sessuale, ma si limita a ancheggiamenti e a occhiate lanciate agli uomini presenti.
Il posseduto, o il medium, è considerato nella propria società come il “cavallo” del dio o come il suo “sposo” ed adotta il comportamento che è ritenuto essere quello dello spirito in questione. Gli dèi costituiscono così una sorta di repertorio di ruoli e la possessione è per un soggetto il fatto di incorporarsi in un ruolo dato. Per Leiris (1989) infatti i geni Zâr di Gondar assomigliano a personaggi teatrali, perché conservano determinate caratteristiche e sono costantemente legati a un’azione.
Leiris (1989) mette in luce poi anche altri elementi caratteristici del teatro che sono presenti nella cerimonia, quali il travestimento dei posseduti e il carattere esclusivamente pubblico delle “esibizioni” rituali.
A Gondar, in Etiopia, (Leiris, 1989) la personalità degli spiriti viene utilizzata dal posseduto come alibi per svincolarsi dalla responsabilità di alcuni comportamenti che egli non intende assumere nella vita ordinaria e che vengono attribuiti durante la cerimonia a questo o quello spirito; così il posseduto, compiendo determinate azioni o pronunciando pesanti accuse, può permettersi pubblicamente le sue trasgressioni e i suoi desideri senza pagarne le conseguenze.
Anche secondo Lewis (1977) le cerimonie zâr e quelle vodu sono delle “vere rappresentazioni teatrali” in cui vengono mimate le difficoltà e le situazioni relative alla vita quotidiana. In questo contesto secondo Lewis (1977) la possessione è una liberazione dagli impulsi e dai desideri repressi nella vita ordinaria ed ha un ruolo decisivo come compensazione psichica.
Secondo alcuni etnologi (Leiris, 1989; Métraux, 1955) la crisi di possessione non si svolge completamente in stato di incoscienza. Leiris (1989), pur riconoscendo nel comportamento dei posseduti un certo grado di “simulazione” (7), è consapevole del fatto che tale teatralità non può essere dichiarata, pena la perdita di senso delle cerimonie che si basano proprio sulla credenza della reale presenza degli spiriti. Anche secondo Métraux agli occhi del pubblico nessun posseduto è un attore, “il ne joue pas un personnage, il est ce personnage pour toute la durée de la transe” (Métraux, 1955, 35).
Il posseduto tuttavia si differenzia dall’attore, perché è mosso dalla fede e si offre totalmente alla divinità (Mars, 1962).
Secondo Métraux il posseduto tiene il suo ruolo in buona fede, attribuendolo alla volontà dello spirito possessore. Il semplice fatto di credersi posseduto è sufficiente a provocare in lui “il comportamento proprio dei posseduti, senza intenzione di inganno”, comportando la possessione una “suggestione di stato” (Métraux, 1955, 45). Il meccanismo di identificazione con gli dèi o meglio “l’auto-ipnosi” è causata, secondo la tesi del dottor Louis Mars (1962) (8), dall’ansia e dalla suggestione, determinata quest’ultima dall’atmosfera sovreccitata delle cerimonie e dall’educazione mistica appresa in famiglia.
Lo stato di possessione è dunque in “funzione del clima intensamente religioso dell’ambiente voduista” e della “profonda credenza nei loa e nelle loro incarnazioni” (Métraux, 1955, 46).
Schott-Billmann (1977), citando l’espressione di Lèvi Strauss, parla di “efficacia del simbolo” che agisce a livello del corpo e usa tale tesi per spiegare le manifestazioni “soprannaturali” del corpo, quali ad esempio l’insensibilità al dolore e allo sforzo, a cui spesso si assiste increduli e che si manifestano durante la trance del posseduto. Questa efficacia è spiegata col fatto che il “corpo-miracolo” diventa una pura rappresentazione delle caratteristiche o delle azioni mitiche degli spiriti ed è dovuta all’esperienza mistica del posseduto.
Lo sciamanesimo come la possessione viene classificato da Luc de Heusch tra le religioni estatiche. Entrambi vengono definiti cioè come “due modi di approccio al sacro attraverso tecniche corporee più o meno violente. Queste tecniche fanno riferimento a una particolare disposizione del corpo e dello spirito che la nostra cultura considera come nevrotica: il cambiamento di personalità” (Luc de Heusch, 1971, 227). Gli etnologi (Bastide, 1972; Métraux, 1955) si dissociano dalle interpretazioni psichiatriche della crisi di possessione, sottolineando il carattere sociologico del fenomeno.
La crisi estatica non è mai anarchica, ma si integra in un culto organizzato da precise e rigide regole. Il medico Louis Mars (1962) sottolinea che la ricerca a tutti i costi dell’isteria porta a non comprendere a fondo la ricchezza dei fenomeni di possessione, che si rivelano, secondo la sua tesi, “uno strumento cultuale o un mezzo terapeutico” (Mars, 1962, 22).
La fase iniziale della trance si manifesta in effetti con i sintomi di un attacco isterico (i posseduti danno l’impressione di aver perso il controllo dei movimenti), ma a differenza dell’isterico che nella crisi rivela le proprie angosce, “il posseduto rituale deve conformarsi all’immagine classica di un personaggio mitico” (Métraux, 1955, 34).
Lapassade (1980) invece di vedere nella trance una forma di isteria, all’inverso considera l’isteria una trance o meglio l’ultima tappa storica della trance. Nel contesto del capitalismo e del cristianesimo, la trance “privata di ogni forma specifica culturale e sociale di espressione” (Lapassade, 1980, 33) si è trasformata in pura isteria.
Nei culti africani la predominanza tra i posseduti di donne e di persone tradizionalmente marginalizzate ha servito di supporto a una visione catartica della possessione che sarebbe secondo alcuni autori (Estrade, 1977; Bastide, 1972) lo sfogo simbolico-religioso degli esclusi sociali alla ricerca di compensazione. Secondo le interpretazioni funzionaliste, che situano i culti in rapporto alla struttura sociale, i fenomeni di possessione sono stati visti anche come contro-potere rispetto alle religioni universaliste dominanti (Métraux, 1971; Leiris,1977), come “resistenza simbolica” alle ingerenze della cultura occidentale (Raison-Jourde, 1983; Baré, 1977), come “linguaggio degli oppressi” (Althabe, 1969) o come mezzo per realizzare desideri coscienti (Leiris, 1977; Scott-Billmann, 1977) o incoscienti (Estrade, 1977).
Un’interpretazione ontologico-esistenziale della possessione è quella che Ernesto De Martino (1961) dà del tarantismo pugliese (9).
Il rituale di possessione è considerato dall’autore come risolutore di “una crisi della presenza storica” legata alla miseria e alla condizione di subalternità delle classi popolari del sud e in particolare delle donne. Il primo morso che raggiunge le “tarantate” si configura come un “rimorso”, cioè come un ritorno di un episodio critico del passato. Attraverso la danza rituale, stimolata soprattutto dalla musica della tarantella e dai colori, verrà esorcizzato lo spirito del ragno che si è impossessato del corpo della donna. Il morso del ragno rappresenta simbolicamente la “crisi della presenza”, cioè “il rischio di perdere la propria identità e la propria ragion d’essere nel mondo”. Il rischio di soccombere e di “non esserci” viene superato attraverso la partecipazione al rito, il quale si pone quindi come regolatore dei “momenti critici dell’esistenza.
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