RICERCHE mediche….sono quasi tutte FASULLE
La maggior parte delle case farmaceutiche è stata fondata a meta-fine ottocento o primi del novecento. Inizialmente le nazioni trainanti in questo settore furono Svizzera, Germania ed Italia.
Nel novecento il concetto di scoperta scientifica si è fuso con quello di bene di consumo di massa, per cui la aziende farmaceutiche hanno imposto un nuovo modo di fare medicina pratica.
Ritirato lo studio che esaminava le differenze nello stato di salute fra bambini vaccinati e non vaccinati – 2018
La censura della scienza non è un fatto nuovo. In Canada, ad esempio, hanno suscitato molte perplessità i vincoli governativi sempre più stringenti che impedivano agli scienziati di rendere note al pubblico le loro scoperte. La censura, nel suo complesso, è un problema costantemente sottostimato nella nostra società. L’elezione di Donald Trump ha certamente mostrato il fatto che i media mainstream riportano solo le narrazioni che vogliono farci vedere.
Nell’ultimo caso di censura scientifica, un articolo di una rivista scientifica è stato “rimosso,” ma solo dopo che i sostenitori dei vaccini hanno dichiarato che doveva essere eliminato. Lo studio, vedete, esaminava le differenze nello stato di salute fra bambini vaccinati e non vaccinati. I risultati indicavano che “i bambini vaccinati mostravano significativamente meno probabilità di ricevere diagnosi di varicella e pertosse rispetto ai non vaccinati, ma significativamente più probabilità di ammalarsi di polmonite, otite media, allergie e patologie del neurosviluppo – NDDs (definite come disturbo dello spettro autistico, sindrome da deficit di attenzione e iperattività, e/o disturbo dell’apprendimento).”
Dalle segnalazioni delle madri, i ricercatori hanno scoperto che i bambini vaccinatierano più soggetti ad allergie e patologie del neurosviluppo (NDDs). Il team ha notato che anche dopo aver tenuto conto di altri fattori, la vaccinazione restava associata in modo rilevante alla presenza di patologie a carico del neurosviluppo, con una probabilità di ricevere una diagnosi di questo tipo quasi tre volte superiore rispetto al controllo. La combinazione di nascita pretermine e vaccinazione produceva un rischio persino maggiore di NDDs, aumentandone le possibilità di oltre sei volte.
Nell’abstract, i ricercatori hanno scritto come conclusione: “In questo studio basato sui report delle madri, i vaccinati hanno avuto un tasso superiore di allergie e di patologie del neurosviluppo rispetto ai non vaccinati. La vaccinazione, ma non la nascita pretermine, è rimasta associata in modo significativo a questo tipo di malattie dopo aver tenuto conto di altri fattori. Tuttavia, la nascita pretermine combinata con la vaccinazione era associata ad un aumento apparentemente sinergico nello sviluppo di NDDs. Sono necessarie ulteriori ricerche che coinvolgano campioni più ampi e indipendenti per verificare e comprendere queste scoperte inattese ed ottimizzare l’impatto dei vaccini sulla salute dei bambini.”
Baxter Dmitry di Investment Watch Blog sottolinea che questo studio è stato “rimosso” dalla rivista Frontiers In Public Health. Normalmente, è ancora possibile vedere la copia cache nell’archivio di internet. Ma Baxter afferma che anche quella è stata cancellata, dichiarando “anche la copia cache disponibile nell’archivio di internet è stata rimossa, il che denota l’esistenza di una vera e propria campagna per evitare che il pubblico venga a conoscenza di questo studio.” Fortunatamente, è stato salvato uno screenshot dello studio prima che il tutto scomparisse per sempre da internet.
Prima di essere rimosso da internet, lo studio è stato sottoposto ad una enorme quantità controlli; a quanto pare in questo caso l’uso di sondaggi, che vengono ampiamente utilizzati per la raccolta dati – sarebbe in qualche modo viziato dal “biais” (forma di distorsione della valutazione causata dal pregiudizio, N.d.T.). Fra i più suggestivi commenti pubblici, “Questo studio è caratterizzato da carente progettazione, benché i risultati non siano impossibili. Esso si basa sui report spontanei delle madri, inducendo al biais,” e “Ecco un altro studio spazzatura sulla rivista Frontiers. Scienziati, smettetela di recensire/pubblicare qui.”
Non è certo la prima volta che uno studio che mostri i potenziali effetti nocivi dei vaccini viene ritirato da internet. A febbraio, la rivista Vaccine rimosse temporaneamente, e poi alla fine ritirò, uno studio che associava il vaccino contro il papillomavirus (HPV) a disturbi comportamentali nei topi.
Pubblicare ricerche che contengono informazioni in conflitto con le narrazioni dei mass media, continua a mostrarsi un modo veloce e facile per trovarsi sulla lista nera della censura da parte dei media tradizionali.
Questo fatto sottolinea ancora una volta l’importanza della ricerca indipendente e dei media alternativi.
Fonti:
– http://www.activistpost.com/2016/12/vaccinated-versus-unvaccinated-children-2016-health-study-pulled-from-publication.html
– http://www.naturalblaze.com/2016/12/notable-study-on-vaccinated-vs-unvaccinated-children-pulled-from-web.html
– http://www.universityworldnews.com/article.php?story=20130625133943361
– https://vaccineimpact.com/2016/retracted-paper-linking-hpv-vaccine-to-behavioral-issues-republished/
RICERCA DEVIATA ai MEDICINALI che MANTENGONO la MALATTIA CRONICA.
INTERVISTA al PREMIO NOBEL per la MEDICINA: RICHARD J. ROBERTS. – MEDITATE e CONDIVIDETE !
Il vincitore del Premio Nobel per la Medicina, Richard J.Roberts, denuncia il modo in cui operano le grandi industrie farmaceutichenel sistema capitalistico, anteponendo i benefici economici alla salute e rallentando lo sviluppo scientifico nella cura delle malattie perché guarire non è fruttuoso come la cronicità.
Qualche giorno fa è stata pubblicata una nota sui dati rivelati che mostrano che le grandi compagnie farmaceutiche degli Stati Uniti spendono centinaia di milioni di dollari all’anno pagando medici affinchè essi promuovano i loro farmaci.
Per completezza riproduciamo questa intervista con il Premio Nobel per la Medicina Richard J. Roberts che segnala che i farmaci che curano non sono redditizi e per questo non sono sviluppati dalle industrie farmaceutiche che al contrario sviluppano farmaci cronicizzanti che siano consumati in modo massivo e continuativo.
Questo, segnala Roberts, determina anche che alcuni farmaci che potrebbero curare completamente una malattia non siano sperimentati. E si chiede fino a che punto è valido ed etico che la industria della salute sia retto dagli stessi principi del mercato capitalista, i quali arrivano ad assomigliare molto a quelli mafiosi.
L’intervista fu originariamente pubblicata dal quotidiano spagnolo “La Vanguardia”:
La ricerca si può pianificare ?
– Se io fosso ministro della Salute o responsabile della Scienza e Tecnologia, cercherei persone entusiaste con progetti interessanti; darei loro i fondi sufficienti affinché non possano fare altro che fare ricerca e li lascerei lavorare dieci anni per sorprenderci.
– Sembra una buona politica.
– Si è abituati a credere che, per arrivare molto lontani devi appoggiare la ricerca di base; però se vuoi risultati più immediati e redditizi, devi puntare sulla ricerca applicata.
– E non è cosi ?
– Spesso le scoperte più redditizie si sono fatte a partire da domante molto fondamentali. Così nacque la gigantesca e multimilionaria industria biotech statunitense per la quale lavoro.
– Come è nata ?
– La biotecnologia nacque quando persone appassionate cominciarono a chiedersi se si potessero clonare geni e cominciarono a studiarli e a tentare di purificarli.
– Tutta un’avventura.
– Sí, però nessuno si aspettava di diventare ricco con queste domande. Era difficile ottenere fondi per questa ricerca, fino a che Nixon lanciò la guerra contro il cancro nel 1971.
– Fu scientificamente produttiva ?
– Permise, con una enorme quantità di fondi pubblici, molta ricerca, come la mia, che non serviva direttamente contro il cancro, però fu utile per capire i meccanismi che permettono la vita.
– Cosa scoprì Lei ?
– Phillip Allen Sharp ed io fummo premiati per la scoperta degli introni nel DNA eucaristico ed il meccanismo di “gen splicing” (giuntura dei geni)
– A cosa servì ?
– Questa scoperta permise di capire come funziona il DNA e tuttavia ha solo una relazione indiretta con il cancro.
– Che modello di ricerca Le sembra più efficace, lo statunitense o l’europeo?
– E’ ovvio che lo statunitense, nel quale prende parte attiva il capitale privato, è molto più efficace. Prenda per esempio le spettacolari innovazioni dell’industria informatica, dove il denaro privato è quello che finanzia la ricerca basica e quella applicata, però per quanto riguarda l’industria della salute…. Ho le mie riserve…
– La ascolto.
– La ricerca nella salute umana no può dipendere solo dalla sua redditività economica. Ciò che è buono per i soci della impresa non sempre è buono per le persone.
– Si spieghi.
– L’industria farmaceutica vuole servire i mercati del capitale…..
– Come qualsiasi altra industria.
– Il fatto è che non si tratta di qualsiasi altra industria: stiamo parlando della nostra salute e delle nostre vite e di quelle dei nostri figli e di milioni di esseri umani..
– Però se sono redditizie, ricercheranno meglio.
– Se pensi solo agli introiti, smetti di preoccuparti di servire gli esseri umani.
– Per esempio…
– Ho verificato come in alcuni casi le ricerche che dipendono da fondi privati avrebbero scoperto medicine molto efficaci che avrebbero curato definitivamente una malattia….
– E perché rinunciano alla ricerca ?
– Perché le industrie farmaceutiche spesso non sono tanto interessate a curare Lei ma piuttosto a toglierle denaro, così la ricerca, immediatamente è deviata verso la scoperta di medicine che non curano completamente, ma che mantengono la malattia cronica e Le fanno sperimentare un miglioramento che scompare quando smette di assumere il farmaco.
– E’ un’accusa grave.
– E’ normale che le farmaceutiche siano interessate in linee di ricerca non per curare ma per convertire solamente in affezioni croniche con medicinali cronicizzanti molto più redditizi rispetto a quelli che curano del tutto e definitivamente. E non avrebbe altro che seguire le analisi finanziarie dell’industria farmaceutica e verificherà ciò che Le dico.
– Ci sono dividenti che uccidono.
– Per questo Le dicevo che la salute non può essere un ulteriore mercato e non si può intendere come un mezzo per guadagnare denaro. Per questo credo che il modello europeo misto di capitale pubblico e privato è meno facile che propizi questo tipo di abuso.
– Un esempio di questi abusi ?
– Si è smesso di ricercare antibiotici perché sono troppo efficaci e guarivano completamente. Siccome non si sono sviluppati nuovi antibiotici, i microorganismi infettivi son diventati resistenti e oggi la tubercolosi, che nella mia infanzia era stata sconfitta, stà risorgendo e ha già ucciso l’anno scorso un milione di persone.
– Non mi parla del Terzo Mondo ?
– Questo è un altro triste capitolo: c’è pochissima ricerca sulle malattie del Terzo Mondo, perché i farmaci che le combatterebbero non sarebbero redditizi. Però io Le sto parlando del nostro Primo Mondo: la medicina che guarisce del tutto non è redditizia e per questo non investono in questa.
– I politici non intervengono ?
– Non si faccia illusioni: nel nostro sistema i politici sono dei semplici impiegati dei grandi capitali, che investono il necessario affinché siano eletti i suoi figli, e se non lo sono, comprano quelli che sono stati eletti.
– Ci sarà di tutto.
– Al capitale gli interessa solo moltiplicarsi. Quasi tutti i politici – e so di cosa parlo – dipendono sfacciatamente da questemultinazionali farmaceutiche che finanziano le loro campagne. Il resto sono parole…..
Tratto da: https://www.facebook.com/francescopaolo.ruggieri/posts/635808736471389#!/
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Richard Smith – ex Direttore del British Medical Journal – in una intervista pubblicata dal Manifesto il 2 dicembre, intitolata “La ricerca medica e’ inattendibile per colpa delle case farmaceutiche“, spiega la grave situazione della ricerca medica ormai (quasi) completamente condizionata dagli interessi economici delle case farmaceutiche.
Smith dichiara che la qualita’ della ricerca e’ bassa, gli errori frequenti.
Da uno studio dell’ACP Journal Club, risulta che su cento giornali medici meno del 5% fornisce informazioni effettivamente utili al personale clinico e sanitario.
Inoltre – continua Smith – il 70% delle ricerche pubblicate dalle cinque maggiori riviste mediche sono finanziate dalle case farmaceutiche e gia’ nel 2003 uno studio pubblicato su JAMA, Journal of the American Medical Association, mostrava che un terzodegli autori aveva interessi economici nella propria ricerca. E aggiunge che per di piu’ i ricercatori non dichiarano di essere condizionati da un conflitto di interesse, come dimostra un altro studio condotto nel 2001.
La ‘cura’ che propone Richard Smith e’ “tornare alle radici del lavoro scientifico, creare un dibattito scientifico piu’ aperto e alla luce del sole come avviene in altri settori della ricerca”.
Il problema e’ come farlo. Bisognerebbe che la comunita’ scientifica avesse un moto di orgoglio e si muovesse unita in questo comune intento. E che i governi capissero l’importanza di finanziare pubblicamente questo settore chiave per l’informazione del medico e – di conseguenza – per la salute delle persone. Troppo facile dare tutta la colpa a Big Pharma.
In altre occasioni egli continua: “Le riviste mediche dovrebbero criticare i trial clinici, non pubblicarli”. A sostenere la tesi provocatoria non è l’ennesima associazione di consumatori agguerriti contro le case farmaceutiche, ma Richard Smith, ex direttore del British Medical Journal, l’importante rivista medica d’oltremanica. Dopo 25 anni trascorsi a pubblicare ricerche sponsorizzate dall’industria – di cui gli ultimi 13 passati al vertice di tutto il gruppo editoriale legato al BMJ – Smith definisce i giornali medici “un’estensione delle strategie di marketing delle compagnie farmaceutiche” e accusa le aziende di pilotare gli studi clinici in modo da ottenere solo risultati favorevoli.
“I direttori delle riviste si stanno rendendo sempre più conto di quanto siano stati manipolati, e si stanno ribellando, ma devo ammettere che ho impiegato un quarto di secolo per svegliarmi e capire quello che stava accadendo”, ha scritto Smith su PLOS Medicine, il giornale online ad accesso gratuito della Public Library of Science, del cui comitato direttivo l’ex direttore del BMJ è entrato a far parte dopo aver dato le dimissioni dalla rivista, nel 2004.
Fonti: PLOS Medicine May 2005, vol 2, issue 5; PLOS Medicine Mar 2005, vol 2, issue 3
Farmaci, ricerca, industria: quale tutela per il cittadino ?
Gran parte della ricerca mondiale in campo medico oggi non sopravvivrebbe senza i finanziamenti dell’Industria farmaceutica. La scienza sotto padrone, però, soffre di una precisa patologia: spesso risponde più alle esigenze commerciali della compagnia che la finanzia che a quelle dei malati in attesa di nuove cure. Situazione, questa, diffusa soprattutto in America e in Europa, dove gli enormi interessi della farmaceutica – primo settore industriale USA – rendono inevitabile il corto circuito tra scienza e profitto. L’Italia non sembra fare eccezione. Conflitti d’interesse e corruzione prosperano anche da noi, come dimostrano casi giudiziari tuttora aperti, che vedono indagate le più alte sfere della medicina italiana: l’ex Ministro Sirchia – per aver presumibilmente incassato da una ditta produttrice di elettromedicali, la Immucor, assegni intesi a favorire l’azienda in occasione di appalti. Il Prof. Umberto Tirelli, del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano – per avere accettato soldi da uno dei colossi della farmaceutica, la GlaxoSmithKline, in cambio di una certa disinvoltura nel prescrivere il farmaco antitumorale Topotecan.
By Laura Margottini – Tratto da: http://www.dipmat.unipg.it/~mamone/sci-dem/nuocontri/margottini.htm
Commento NdR:
Oggi sono ben noti i misfatti dell’industria farmaceutica, e sono solo la punta dell’iceberg, ma nell’articolo non vengono tenuti in nessuna considerazione i GRAVISSIMI MISFATTI degli enti governativi Italiani ed esteri, a “Tutela della Salute”; dove sono stati, e dove sono ancora oggi questi enti che dovrebbero controllare con i loro laboratori, i farmaci ed anche i vaccini…..forse al bar a prendersi un caffe’….? ..e chiudendo tutti i due occhi su queste azioni Criminali, cio’ significa che sono collusi con i produttori di farmaci e vaccini, ma significa anche che le case farmaceutiche hanno corrotto e/o immesso nei posti di potere di questi enti, i “loro” uomini affinche’ nascondessero e chiudessero i due occhi su questi CRIMINI contro l’Umanita’ …..
….altro che HITLER….quello ERA un BRAVO RAGAZZO in CONFRONTO a QUESTI CRIMINALI di OGGI !
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Se finanzia l’industria i risultati sono più favorevoli al farmaco !!!
Lo scorso 2 agosto 2010, MedlinePlus, il sito web rivolto ai cittadini (http://www.nlm.nih.gov/medlineplus/), gestito dalla prestigiosa biblioteca biomedica del National Institute of Health (NIH), pubblicava questa notizia: “Un’analisi suggerisce che le ricerche finanziate dall’industria farmaceutica hanno una maggiore probabilità delle altre di avere un risultato positivo”.
L’analisi in questione, pubblicata sugli Annals of Internal Medicine (http://www.annals.org/content/153/3/158.abstract), è stata svolta da tre ricercatori del Children’s Hospital di Boston e finanziata con fondi pubblici. Gli autori della ricerca hanno voluto descrivere le caratteristiche dei trial registrati su ClicalTrials.gov inerenti efficacia e sicurezza di 5 classi di farmaci e vedere se la fonte del finanziamento fosse associata alla pubblicazione di risultati favorevoli al farmaco.
Gli autori chiudono il loro articolo affermando che i trial finanziati dall’industria hanno minori probabilità di essere pubblicati entro 2 anni dal loro completamento e maggiori probabilità di riportare risultati positivi. Questa conclusione per altro non è una novità. Sono diversi gli studi che suggeriscono le stesse conclusioni.
Dei 546 trial, 346 (63%) sono stati finanziati dall’industria, 74 (14%) da agenzie governative e 126 (23%) da organismi non profit o non federali.
I trial finanziati dall’industria hanno una maggior probabilità di essere di fase 3 o 4 (88.7%; P < 0.001), di usare un farmaco di confronto attivo (36.8%; P =0.010), di essere multicentrici (89.0%; P < 0.001), di arruolare un maggior numero di partecipanti (dimensione mediana del campione, 306 partecipanticontro i 78 e i 50 dei trial finanziati dalle altre fonti; P < 0.001), di arruolare almeno il 75% dei partecipanti previsti (84,9%; P < 0.001).
Al contrario, solo i trial finanziati da agenzie governative hanno incluso tra i partecipanti un numero significativo di bambini (37,8%; P < 0.001).
Di tutti i trial, solo 362 (66,3%) hanno pubblicato i risultati: 230 (66,5%) tra quelli finanziati dall’industria, 41 (55,4%) da agenzie governative e 91 (72,2%) da enti non profit o non federali.
I trial finanziati dall’industria hanno riportato un risultato positivo nel 85.4% delle pubblicazioni, in confronto al 50.0% dei trial governativi e al 71.9% di quelli finanziati da organismi non profit o non federali (P < 0.001).
Tra questi ultimi, quelli in cui era presente un contributo dell’industria, hanno riportato risultati positivi più frequentemente di quelli senza contributi (85.0% vs. 61.2%; P = 0.013). Il tasso di pubblicazione dei trial entro 24 mesi dal termine dello studio, va dal 32.4% per quelli finanziati dall’industria al 56.2% per quelli finanziati da organismi non profit o non federali senza contributi dell’industria (P = 0.005).
Gli autori chiudono il loro articolo affermando che i trial finanziati dall’industria hanno minori probabilità di essere pubblicati entro 2 anni dal loro completamento e maggiori probabilità di riportare risultati positivi.
Questa conclusione per altro non è una novità.
Nel 2003 sul BMJ fu pubblicata una revisione sistematica di Lexchin et al. (http://www.bmj.com/cgi/content/full/326/7400/1167) che mostrò come il finanziamento di uno studio da parte dell’industria farmaceutica fosse associato a risultati favorevoli alla molecola della ditta finanziatrice.
Gli autori selezionarono 30 ricerche tra quelle svolte sulla relazione tra sponsor e risultati della ricerca tra il 1966 e il 2002 (6 revisioni di farmacoeconomia, metanalisi e 22 analisi di gruppi di trial) e conclusero che le ricerche finanziate dall’industria avevano minori probabilità di essere pubblicate rispetto a quelle sostenute da fondi pubblici e maggiori probabilità di dare un risultato favorevole allo sponsor (odds ratio 4.05; 95%CI 2.98 – 5.51).
Nessun studio ha evidenziato che i trial condotti dall’industria fossero di bassa qualità. La spiegazione va piuttosto ricercata nella scelta “opportunista” del farmaco di confronto (notoriamente poco efficace o somministrato a dosi troppo basse); infine esiste un bias di pubblicazione, nel senso che l’industria tende a non pubblicare gli studi che sono sfavorevoli al suo prodotto.
Nel 2006 su Jama, una ricerca di Ridker e Torres (http://jama.amaassn.org/cgi/content/full/295/19/2270) ha voluto verificare se questasituazione fosse cambiata negli anni 2000, in particolare negli studi inerenti l’ambito cardiovascolare.
Dopo avere fatto una revisione di 303 trial di superiorità, pubblicati tra il 2000 e il 2005 su Jama, NEJM e Lancet e per i quali era indicata la fonte di finanziamento, gli autori trovarono che su 137 trial finanziati dall’industria 92 (67%) ebbero un risultato favorevole al nuovo trattamento (P<.001), mentre ciò accadde solo in 51 (49%) dei 104 trial finanziati da organismi non profit (P=.80). Tra i 62 trial con finanziamento misto, 35 (57%) furono favorevoli.
Tra i 205 RCT di farmaci, le proporzioni favorevoli al nuovo trattamento furono 39.5% per quelli finanziati da organismi non profit, 54.4% per quelli con finanziamento misto e 65.5% per quelli finanziati dall’industria (P per il trend intragruppi =.002).
Tra i 39 RCT condotti su devices cardiovascolari, le proporzioni degli studi con risultato favorevole furono rispettivamente 50.0%, 69.2%, 82.4%, (P per il trend intragruppi =.07). Inoltre i trial che avevano end point surrogati avevano maggiori probabilità di un risultato positivo (67%), rispetto a quelli che avevano degli end point clinici (54.1%; P=.02).
Ulteriore conferma della associazione tra finanziamento dell’industria e risultato favorevole si è avuta anche nel campo dei vaccini: Jefferson et al.(http://www.bmj.com/cgi/content/full/338/feb12_2/b354) nel 2009, esaminando 259 studi sui vaccini influenzali, hanno dimostrato come gli studi finanziati da organismi governativi abbiano minore probabilità di dare risultati favorevoli ai vaccini, rispetto a quelli finanziati in tutto o in parte dall’industria.
Tratto da: pianetadonna.it
CONFLITTI D’INTERESSI nella RICERCA BIOMEDICA e nella PRATICA CLINICA
Approvato nella Seduta Plenaria dell’8 Giugno 2006 – Italy
Presidenza del Consiglio dei Ministri COMITATO NAZIONALE per la BIOETICA:
vedi PDF tratto da: http://www.governo.it/bioetica/testi/Conflitti_interessi.pdf
vedi anche: Conflitto di interesse + Conflitti di interesse PDF – 1 + Conflitti di interesse PDF – 2 + Conflitti di Interesse, denuncia del Governo Ii – PDF + CDC – 1 + FDA + Conflitti di Interesse, business farmaci e vaccini + Conflitti di interesse dell’AIFA
vedi anche: ISS + Ministero della salute + EMA + CNR e Corruzione + Consenso Informato
CDC e Conflitti di interesse – 1 + CDC e Conflitti di interesse – 2 + CDC e Conflitti di interesse – 3 + Corruzione
CDC conflitti di interesse anche per i vaccini
http://healthimpactnews.com/2014/cdcs-purchase-of-4-billion-of-vaccines-a-conflict-of-interest-in-overseeing-vaccine-safety/
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Pharmageddon: l’inizio o la fine ?
Il recente risarcimento di oltre 3 miliardi di dollari pagato dalla GlaxoSmithKline al governo USA ci ha ricordato (se mai ne avessimo avuto bisogno) della serie di scandali che nell’ultimo decennio ci hanno in parte svelato i retroscena di Big Pharma.
Dal rofecoxib al rosiglitazone, reboxetina, paroxetina, olanzepina e quant’altro finisca con “ina”, fino all’oseltamivir (e probabilmente al pioglitazone), (NdR: anche ai vaccini, qui dimenticati) la storia è la stessa.
In genere i benefici della “meravigliomicina” vengono esagerati e la sua tossicità sminuita o alle volte addirittura nascosta. Questo è reso possibile dal processo oscuro e complesso di trasformazione della ricerca: siamo passati da semplici osservazioni su ciascun partecipante a complessi rapporti sui megatrial multicentrici scintillanti e rutilanti.
Gli effetti collaterali seri o addirittura mortali sono stati sepolti in giochi complessi di classificazioni ballerine, definizioni compiacenti o allocazioni sbagliate degli eventi da un braccio del trial all’altro.
I regolatori spesso non se ne rendono conto e i ricercatori indipendenti si basano su articoli pubblicati su mega riviste che altro non sono altro che sinossi pubblicitarie, veritiere alla stregua di Lele Mora.
Nonostante i cadaveri siano veri (come quelli dei film di George Romero), i guadagni favolosi (alla Vanna Marchi) permettono a Big Pharma di pagare risarcimenti come fossero banali multe da autovelox, il colpevole non confessa e nessuno va in galera (come il Mago Dos Santos).
Il danno all’immagine e alla reputazione del farmaco e del produttore viene presto riparato grazie all’intervento di società di comunicazione e KOL compiacenti [vedi gergotomo di AaB] che fanno circolare messaggi promozionali camuffati da principi di sanità pubblica.
Come è stato possibile arrivare a tanto ? E soprattutto, come è possibile che questa situazione venga tollerata nella più totale indifferenza ?
David Healy è un professore di psichiatria nelle brume piovose del Galles settentrionale (dove le pecore sono solite indossare le pinne). Healy nel suo libro descrive la rapida discesa agli inferi di Pharmageddon.
Pharmageddon è uno scenario in cui i danni di nuovi farmaci sono maggiori dei loro benefici e in cui i pazienti soffrono e muoiono, avendo pagato profumatamente per essere avvelenati.
I medici fanno da spettatori consenzienti e ignoranti (“non sembrano rendersi conto che l’accesso al ricettario li pone nella posizione di un imperatore romano con i pazienti nel ruolo di assaggiatori”).
Pharmageddon è un libro che dipinge un quadro convincente delle origini dei nostri mali e dei loro effetti lungo l’arco degli ultimi 50 anni, periodo in cui il potere è passato dalle mani dei medici (che giustamente vengono descritti come bersagli imbelli e arroganti dell’operazione di marketing più sofisticata al mondo) a quelle di Big Pharma.
Healy mette in luce un aspetto sconcertante: la professione medica che è abbindolata da linee guida costruite su articoli di rivistone che appaiono evidence-based, ma sono in realtà basate su pubblicità.
La professione alla deriva segue pedissequamente le indicazioni delle linee guida e degli articoli per paura di denuncie o per il timore di non apparire all’altezza agli occhi di colleghi e astanti vari.
Healy identifica le origini di Pharmageddon riconducendole a 3 eventi apparentemente indipendenti.
– Il primo è la riduzione dei fondi destinati alla ricerca clinica in USA a cominciare dagli anni 60.
Questa riduzione di fondi era basata sull’idea che visto che i trial clinici servivano soprattutto a Big Pharma, era giusto che fosse Big Pharma a pagarseli. Un ragionamento questo che oggi ci farebbe sorridere (come le patetiche battute del molto onorevole Li-Bro) se non fosse per i danni in termini di vite e fondi pubblici.
– Il secondo evento è stato la moltiplicazione delle cattedre universitarie, che ha trasformato il mondo accademico dall’arcadia degli anni 50 (nel quale un singolo gruppo di accademici in un solo centro conosceva tutti i partecipanti al trial) allo scenario contemporaneo da Spaghetti Western, nel quale un numero sempre maggiore di cacciatori di taglie va a caccia di denaro per la sperimentazione di Big Pharma.
– Il terzo elemento è la nascita del trial multicentrico. E qui l’esperienza millenaria di Sun Tzu e il verbo di Healy si sono uniti in una scintilla che ha illuminato uno dei punti critici. Nei trial multicentriogni centro vede i suoi pazienti ma nessun centro ha la visibilità di ciò che fa il centro accanto. L’unico centro ad avere un quadro di insieme è il mission control presso Big Pharma che vede tutto quello che producono gli altri centri. Una situazione che offre più di qualche opportunità per divertirsi a spostare e rimpiattare (o meglio a seppellire), come dimostrano gli eventi dell’ultima decade.
Recentemente Sun Tzu ha pubblicizzato Pharmageddon in occasione di due convegni internazionali di HTA.
Il messaggio di Sun Tzu era lo stesso di quello di cui si fa portatore Healy. Guardatevi intorno e, come vi invitiamo ogni giorno a fare da questo sito, prima della prossima pandemia influenzale, pentitevi. Se non lo farete la medicina sarà ridotta alle funzioni del Capitano Bollo Tondo nella Grande Guerra di Mino Monicelli: un’autorizzazione scritta a cibarsi di megamicina, scintillolo e altri rimedi miracolosi. A sorpresa gli astanti annuiscono sempre alle parole di Sun (ma dove sono finiti tutti quelli che consideravano la prima edizione di AaB esagerata?), a sottolineare che il libro di Healy si basa su fatti. Non vi piaceranno le conclusioni, ma così è.
Leggete Pharmageddon. Fatelo specialmente se siete dei medici con il ricettario di rapida estrazione dalla fondina. Fidatevi del maestro Sun: questo è il mondo vero e non quello delle fantasie dei media.
Dimenticavo: sono solo un cinese saggio, non sono parente di Healy, non ho parenti in Atac, non ho mai incontrato Healy e non posseggo azioni della sua casa editrice.
David Healy. Pharmageddon. – University of California Press. www.ucpress.edu.
Tratto da: attentiallebufale.it
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Farmaci, ricerca, industria: quale tutela per il cittadino ?
Gran parte della ricerca mondiale in campo medico oggi non sopravvivrebbe senza i finanziamenti dell’industria farmaceutica.
La scienza sotto padrone, pero’, soffre di una precisa patologia: spesso risponde piu’ alle esigenze commerciali della compagnia che la finanzia che a quelle dei malati in attesa di nuove cure. Situazione, questa, diffusa soprattutto in America e in Europa, dove gli enormi interessi della farmaceutica – primo settore industriale USA – rendono inevitabile il corto circuito tra scienza e profitto.
L’Italia non sembra fare eccezione. Conflitti d’interesse e corruzione prosperano anche da noi, come dimostrano casi giudiziari tuttora aperti, che vedono indagate le piu’ alte sfere della medicina italiana: l’ex Ministro Sirchia – per aver presumibilmente incassato da una ditta produttrice di elettromedicali, la Immucor, assegni intesi a favorire l’azienda in occasione di appalti.
Il Prof. Umberto Tirelli, del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano – per avere accettato soldi da uno dei colossi della farmaceutica, la GlaxoSmithKline, in cambio di una certa disinvoltura nel prescrivere il farmaco antitumorale Topotecan. Ma in quali pieghe del processo scientifico si insinuano e attecchiscono certe mistificazioni della scienza medica ?
Peer review: Garanzia o censura ?
Per rispondere, e’ necessario descrivere brevemente come funziona uno degli aspetti cruciali della scienza, in particolare di quella medica: la pubblicazione di articoli, attraverso i quali vengono rese note scoperte ed esiti delle sperimentazioni. e’ grazie a riviste specialistiche come The Lancet, The British Medical Journal, New England Journal of Medicine, JAMA, per citare alcune tra le piu’ autorevoli, che i medici di tutto il mondo vengono informati sui risultati piu’ innovativi della medicina e della farmacologia.
Ma la pubblicazione ha anche un altro ruolo vitale per la scienza:”rappresenta il test piu’ critico per un’ipotesi o per un dato scientifico, che vengono sottoposti al giudizio dell’ultimo tribunale: la comunita’ scientifica e il pubblico” spiega il prof. Peter Duesberg, professore di biologia molecolare della University of California, esperto di AIDS di fama mondiale.
Ma chi ha il compito di decidere se un lavoro e’ da pubblicare oppure no ?
La valutazione si fa all’interno del cosiddetto peer-review process. Questo processo prevede che gli articoli proposti ad una rivista vengano esaminati da alcuni referee, cioe’ esperti di un determinato settore della medicina, a cui il direttore del giornale si rivolge perche’ valutino la qualita’, la correttezza scientifica e l’originalita’ dei lavori. Forniscono, in pratica, i pareri tecnici in base ai quali il direttore decide se pubblicare o meno l’articolo.
Al fine di garantire la trasparenza e l’obiettivita’ dei giudizi, gli autori degli articoli non dovrebbero conoscere i nomi dei refeere e viceversa.
Questo, almeno, e’ cio’ che dovrebbe essere, ma molte sono le eccezioni e le anomalie di questo processo. Secondo Duesberg: il Peer-Review e’ una forma di censura con aspetti sia positivi che negativi. Positivi, perche’ scienziati senza conflitto di interesse possono eliminare le pubblicazioni basate su prove non scientifiche o ipotesi confutate. Negativi, perche’ l’ideologia scientifica prevalente usa il peer_review per eliminare quelle innovazioni che minacciano le ipotesi e gli investimenti dell’ortodossia.
Duesberg lo dice per esperienza. Considerato un luminare in tema di AIDS e cancro, avendo isolato il primo gene ritenuto responsabile di indurre tumori e mappato la struttura genetica dei retrovirus (un’opera che gli e’ valsa nel 1986 l’elezione alla piu’ importante associazione scientifica americana, la National Academy of Science), Duesberg ha compromesso una lanciatissima carriera, opponendosi a quello che definisce “il dogma dell’Hiv”, cioe’ la teoria attualmente piu’ accreditata sulle cause dell’AIDS, quella secondo la quale e’ il retrovirus Hiv ad indurre l’immunodeficienza. Secondo Duesberg, non c’e’ assolutamente alcun legame scientificamente accertato tra il virus e la malattia, e i farmaci antiretrovirali non solo sono inutili, ma in alcuni casi accelerano la morte dei pazienti, come e’ avvenuto per l’AZT della multinazionale Glaxo.
Quando Duesberg ha tentato di divulgare le sue ragioni scientifiche sulla questione, si e’ visto rigettare lavori dalle stesse riviste mediche dove prima pubblicava, negare inviti ad importanti congressi a cui era solito partecipare e fondi per la ricerca che era solito ottenere.
Insomma, il suo punto di vista sulle cause dell’Aids – condiviso anche da scienziati del calibro di David Rasnick e del Premio Nobel 1993 per la chimica Kary Mullis – lo ha quasi ridotto al silenzio. Paradossalmente, quindi, puo’ accadere che il peer review faccia da freno al progresso scientifico, invece che da motore, oscurando ipotesi nuove prima che abbiano avuto la possibilita’ di essere confutate.
Secondo Duesberg: “Le riviste piu’ quotate sono quelle che pubblicano gli articoli che maggiormente riflettono gli standard dell’ortodossia scientifica. Questo pero’ non garantisce che le ricerche pubblicate siano corrette.
Il lavoro di Galileo sul sistema eliocentrico ne e’ un classico esempio: pur essendo corretto, esso fu censurato dall’ortodossia del tempo. Ma abbiamo anche molti esempi moderni, come l’ipotesi della mutazione somatica per cio’ che riguarda la ricerca sul cancro. Essa prevede che il cancro sia causato dalle mutazioni che subiscono alcuni geni. Sebbene non esistano prove a sostegno del fatto che mutazioni genetiche possano indurre il cancro, questa teoria ha effettivamente oscurato tutte le ipotesi alternative degli ultimi 30 anni”.
La FRODE degli autori fantasma.
La censura preventiva non e’ l’unico uso scorretto che si fa della pubblicazione. “Il sistema e’ stato molto abusato fino a questo momento – sostiene il Prof. David Healy, celebre psichiatra dell’Universita’ del Wales, Inghilterra – in vari modi. Prima di tutto, tantissimi articoli medici non sono stati scritti realmente da chi dichiara di esserne l’autore, ma da ghostwriter, autori fantasma, cioe’ da impiegati delle compagnie farmaceutiche i quali prima provvedono alla stesura del lavoro, e poi propongono a qualche grosso nome della medicina di firmarlo”, ottenendo così pubblicita’ a basso costo per i nuovi farmaci. Infatti se l’articolo che ne descrive le proprieta’ e’ firmato da un nome importante, i medici tendono a fidarsi di piu’ di quanto non farebbero con l’informatore farmaceutico mandato dall’industria, e quindi prescrivono quel farmaco piu’ volentieri.
Chi accetta di firmare lo fa sia per il compenso che la compagnia gli offre in cambio, sia perche’ pubblicare il piu’ possibile e’ vitale per fare carriera e per ottenere l’assegnazione di fondi per la ricerca.
Lo stesso Healy si e’ visto presentare un articolo gia’ pronto da firmare. Avendo declinato l’offerta, la compagnia che lo aveva scritto non ha fatto altro che riproporlo, nella stessa identica forma, ad un altro famoso psichiatra, il Dott. Siegfried Kasper dell’Universita’ di Vienna, ottenendo finalmente cio’ che voleva. “La cosa piu’ grave – puntualizza Healy – non e’ che il vero autore sia un altro, ma che cio’ che e’ scritto nell’articolo non sia la verita'”. Questi articoli, infatti, non tengono veramente conto dei dati bruti ottenuti nella fase della sperimentazione clinica del farmaco. Ne esaltano le qualita’ e minimizzano gli effetti collaterali, come in un qualsiasi spot pubblicitario. “Sono veri e propri spot. – afferma Healy “In generale, quando si tratta di farmaci, pochissimi articoli sono scritti senza subire l’influenza delle case farmaceutiche”.
E il 50% di quelli pubblicati sul British Medical Journal e su The Lancet, secondo Healy sono scritti da ghostwriters. Poiche’ i dati bruti delle sperimentazioni troppo spesso non vengono pubblicati – pratica che lo psichiatra condanna duramente – e’ molto difficile verificare l’autenticita’ dei lavori.
Tale omissione di informazioni e’ considerata da moltissimi ricercatori e scienziati una grave mancanza, del tutto contraria all’etica della ricerca. Infatti, se i dati ottenuti durante una sperimentazione vengono tenuti nascosti alla comunita’ scientifica, oltre a non poter verificare l’autenticita’ dei risultati pubblicati, cio’ provoca inevitabilmente un duplice effetto: il rallentamento di quelle sperimentazioni che potrebbero beneficiare di tali dati da una parte; la ripetizione di esperimenti gia’ effettuati dall’altra.
La questione dei ghostwriter rappresenta un problema anche per le riviste, come evidenziato anche da Richard Smith, ex direttore del British Medical Journal e attuale direttore generale di United Health Europe: “e’ molto difficile, per noi, distinguere, e quindi rifiutare, gli articoli di questo tipo da quelli onesti – ha dichiarato.
Pubblicita’ esplicita
La dipendenza che i giornali hanno nei confronti dell’industria e’ dimostrato in prima battuta dalle inserzioni pubblicitarie presenti massicciamente nelle riviste. Quasi tutti i giornali che si occupano di medicina – dalle riviste specialistiche fino agli inserti “salute” dei quotidiani- ospitano moltissima pubblicita’ a pagamento sui farmaci e questo non puo’ che gettare un ombra sull’onesta’ dell’informazione che viene proposta.
Quale obbiettivita’ ci si puo’ infatti aspettare da una rivista che fa pubblicita’ ai prodotti di una certa compagnia farmaceutica? Gli editor saranno imparziali nel giudicare gli studi sponsorizzati dalle stesse compagnie che, attraverso l’acquisto di spazi pubblicitari, finanziano la rivista ?
Il Prof. Del Favero (dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Universita’ di Perugia), a cui abbiamo rivolto tali domande, ci assicura che “La sopravvivenza di riviste prestigiose come The Lancet, il BMJ o il New England Journal of Medicine, non dipende certo dal ricavato della pubblicita’, poiche’ esse possono vantare un altissimo numero di abbonati”.
Ma allora perche’ anche le loro pagine sono piene di spot pubblicitari sui farmaci ?
Del resto anche Richard Smith che e’ stato direttore per ben 13 anni del BMJ, ha recentemente affermato che la dipendenza delle riviste mediche dalla pubblicita’ delle case farmaceutiche e’ una realta’.
Senza contare un altro aspetto legato alla pubblicita’ dei farmaci: la stragrande maggioranza e’ giudicata pubblicita’ ingannevole, come rivela un articolo pubblicato nel 2003 su The Lancet, il quale sostiene che il materiale pubblicitario inviato ai medici dalle case farmaceutiche e’ pieno di affermazioni false, e un altro studio pubblicato nel 2004 dal BMJ che recita:”Solo il 6% del materiale pubblicitario sui farmaci e’ supportato da prove scientifiche”
Il secondo articolo succitato riporta i risultati di uno studio condotto dall’ Institute for Evidence-Based Medicine, un istituto di ricerca privato e indipendente con sede a Colonia. Dall’esame di un campione di materiale pubblicitario sui farmaci, i ricercatori hanno verificato che solo il 6% di esso conteneva affermazioni scientificamente supportate da una letteratura medica identificabile. Nel restante 94% le affermazioni fatte non riflettevano i risultati di alcuno studio, o non era chiaro a quali studi si facesse riferimento.
Lo studio evidenzia come “tali spot presentino un’immagine distorta dei medicinali che sponsorizzano: ne minimizzano gli effetti collaterali, ne esagerano i benefici, non danno una chiara definizione dei gruppi di pazienti a cui si fa riferimento, sopprimono i risultati degli studi, manipolano i rischi, in alcuni casi fanno riferimento solo agli effetti riscontrati sugli animali” Stando all’articolo del BMJ, tale situazione espone i pazienti a molti rischi, poiche’ “e’ dimostrato che i medici tendono a basare le proprie decisioni sul materiale informativo e pubblicitario inviato loro dalle compagnie farmaceutiche”, cioe’ si fidano di quello che c’e’ scritto, perche’ lo considerano scientificamente valido.
Pubblicita’ occulta
Secondo Smith la questione della pubblicita’ a pagamento sulle riviste, per quanto grave e cospicua, rappresenta solo la minore forma di corruzione. Nelle riviste mediche e’ diffusissima anche un altro tipo di pubblicita’, ben piu’ difficile da decodificare: quella rappresentata dalla pubblicazione dei risultati di sperimentazioni cliniche finanziate dalle industrie.
Studi di questo tipo molto raramente producono risultati sfavorevoli.
Le compagnie farmaceutiche cercano infatti di pubblicare solo gli esiti positivi delle ricerche che finanziano, perche’ uno studio favorevole che appare su una rivista prestigiosa assicura loro un’enorme fonte di pubblicita’. In questo caso l’articolo viene distribuito dalla casa farmaceutica ai medici di tutto il mondo nel tentativo di convincerli della qualita’ del “prodotto” di cui si parla nello studio, sfruttando l’autorevolezza di cui la rivista gode presso la comunita’ scientifica. Pubblicare solo i dati positivi delle sperimentazioni,
Secondo Smith: “Le riviste di medicina costituiscono un’estensione del braccio del marketing delle compagnie farmaceutiche, per le quali uno studio favorevole vale piu’ di migliaia di inserzioni pubblicitarie.
E’ per questo che una compagnia puo’ arrivare a spendere piu’ di un milione di dollari in reprint dello studio per la sua distribuzione mondiale.”
Smith avverte che “pubblicare tali articoli significa compromettere la credibilita’ e l’onesta’ della rivista”, cio’ nonostante moltissimi giornali lo fanno, anche i piu’ autorevoli. Il perche’ ce lo ha spiegato lo psichiatra David Healy: “Troppo spesso gli articoli che le grandi riviste pubblicano riguardano farmaci, perche’ gli editor sanno che cio’ assicura grossi introiti alla rivista.
Infatti, sanno gia’ che la casa produttrice del medicinale di cui si parla nell’articolo acquistera’ dalle 20mila alle 50mila copie [che portera’ circa 100,000$ di profitto alla rivista]. Cio’ influenza moltissimo le scelte dei direttori”
Cio’ significa che la piu’ grossa fetta di guadagno per le riviste, soprattutto per quelle piu’ prestigiose, e’ costituito proprio da questo tipo di pubblicazioni. L’effetto che pratica ha, oltre ad indurre i medici a pensare che un farmaco sia piu’ efficace di quanto non lo sia realmente, e’ quello di distorcere completamente la letteratura medica. Per questo David Healy ritiene che: “La fiducia che attualmente si puo’ avere nei confronti di articoli che hanno a che fare con i farmaci e’ bassissima. In questo momento la pubblicazione scientifica e’ molto piu’ importante per il marketing delle compagnie farmaceutiche che per lo sviluppo della scienza”.
La politica della “full disclosure”
Refeere, autori degli articoli ed editor (cioe’ direttori o redattori capo) delle riviste troppo spesso hanno conflitti d’interesse con l’industria e questo rende molto difficile capire quanto gli esiti pubblicati sugli articoli, specie in farmacologia, siano influenzati dalle compagnie farmaceutiche. Per questo motivo, dal 2001 una dozzina di giornali, tra i quali il Journal of the American Medical Association (JAMA), il New England Journal of Medicine (NEJM) e il The Lancet, richiedono una serie di garanzie prima di pubblicare i risultati degli studi.
La nuova politica, che va sotto il nome di full disclosure, obbliga chi pubblica a dichiarare i propri legami con l’industria, in modo tale che il lettore spossa giudicare quanto l’informazione riportata possa essere stata influenzata dalle compagnie per le quali lavora l’autore dell’articolo.
Strategia che rappresenta un primissimo ma efficace passo nella direzione della trasparenza. La proposta e’ stata accolta con entusiasmo, almeno in apparenza, dai ricercatori e da molte riviste internazionali. Quelle europee invece, non hanno ancora aderito.
Non tutti gli autori hanno la stessa percezione dell’importanza di questo nuova politica. Si va infatti da un eccesso all’altro. Come ha ricorda Marcia Angell, ex editor della piu’ autorevole rivista di medicina, il NEMJ, i conflitti di interesse dichiarati sono in alcuni casi talmente tanti che non e’ possibile pubblicarli, come di norma, sulla pagine della rivista, perche’ prenderebbero piu’ spazio dell’articolo stesso.
Per questo vengono pubblicati separatamente sul sito web della rivista. In altri casi, come denuncia in un rapporto del 2004 l’organizzazione americana Center for Science in the Public Interest (CSPI) -che vigila sui molteplici conflitti di interesse che possono riguardare la scienza- ancora troppi autori dichiarano di non avere alcun legame con le industrie, quando invece ce l’hanno. L’associazione ha infatti analizzato i conflitti del primo e dell’ultimo autore che si dichiarava “pulito” di 163 articoli del 2003 apparsi in quattro tra le piu’ note riviste mediche: NEMJ, JAMA, Environmental Health Perspective, Toxicology and Applied Pharmacology. Utilizzando database pubblici, la CSPI ha scoperto che in ben 13 articoli, l’8 %, gli autori avevano conflitti di interesse non dichiarati.
Industria, etica e liberta’ di ricerca
Oltre alle pubblicazioni, gli sponsor possono influenzare anche la liberta’ degli scienziati che lavorano per loro, come ci racconta un farmacologo di fama internazionale, il Prof. Gessa dell’Universita’ di Cagliari, il quale riceve soldi per fare ricerca da 3 multinazionali straniere e da una casa italiana, di cui pero’ non ci rivela i nomi.
“Se studi un farmaco per conto di una compagnia – spiega Gessa – devi firmare un Secrecy Agreement, un accordo di segretezza in cui ti impegni a fare solo cio’ che concordi con lo sponsor e nient’altro.
Ad esempio, a non divulgare informazioni e a non pubblicare niente senza autorizzazione. Per fare dell’altro ti serve l’OK del finanziatore, che non sempre e’ propenso a concederlo”.
Questo vuol dire che se da una sperimentazione emergono risultati inaspettati, ad esempio si scopre che il farmaco ha effetti benefici anche per patologie diverse da quelle che interessano lo sponsor, il ricercatore non puo’ informare ne’ la comunita’ scientifica ne’ i pazienti, se non e’ autorizzato. Ma cio’ che e’ piu’ grave e’ che nel caso in cui il ricercatore scopra delle reazioni avverse nei farmaci che studia, non e’ detto che sia libero di renderli pubblici. Lo dimostra il caso della dottoressa Nancy Olivieri dell’Universita’ di Toronto.
Avendo scoperto alcuni effetti tossici di un farmaco che stava testando per conto di una compagnia, la ricercatrice chiese di informare i pazienti che lo assumevano.
Vedendosi negare l’autorizzazione, la Olivieri decise di non rispettare l’accordo di segretezza e informo’ lo stesso i suoi pazienti. Il risultato fu la sospensione dell’esperimento e del suo contratto di ricerca.
Lo sponsor puo’ anche decidere di ritardare la pubblicazione di scoperte o farmaci nuovi, per ragioni strettamente commerciali, come ad esempio attendere che il farmaco venga brevettato.
Puo’ anche decidere di non pubblicare affatto i dati dell’esperimento nel caso in cui gli esiti siano negativi. Comportamento, questo, giudicato assolutamente contrario all’etica della ricerca.
Se invece l’esperimento va bene, e “se dalla vendita di un farmaco dovessero nascere dei miliardi, cosa che accade – continua Gessa – il ricercatore prende una certa percentuale. Una parte dei soldi che riceve puo’ utilizzarla per gli studi che a lui interessano”.
Ma e’ possibile pensare di fare ricerca schivando certi paletti imposti dalle industrie ? Secondo Gessa no. “Senza i soldi dell’industria non e’ possibile. Anche il ministero della ricerca consiglia di ‘sposarsi’ con gli sponsor, perche’ piu’ dello stipendio non e’ in grado di assicurare”. Ma qualche modello di finanziamento alternativo forse esiste. Il Prof. Tansella, psichiatra dell’Universita’ di Verona, ha recentemente proposto un sistema di finanziamenti per una ricerca su cui nessuno investe, la ricerca psicosociale, che studia gli effetti terapeutici dell’ambiente sociale sulle patologie mentali.
Il finanziamento prevede anche il contributo dell’industria, ma pare aver trovato la chiave per evitarne la tirannia. Secondo il Prof. Tansella del Centro OMS per la Ricerca sulla Salute Mentale di Verona, la ricerca psicosociale ha un ruolo chiave nel fornire indicazioni per la cura delle patologie mentali, perche’ tiene conto di tutti gli aspetti che possono influire positivamente sul decorso della malattia, in particolare studia l’influenza che l’ambiente sociale puo’ avere sul paziente.
Gli esiti di questo tipo di ricerche, trasferiti nella pratica dei Servizi pubblici, come le ASL, permettono di valutare fin dall’inizio quale siano le strategie vincenti da utilizzare, specie nei casi gravi e soggetti a frequenti ricadute. Il Centro OMS di salute mentale si occupa proprio di questo tipo di studi, ed e’ riuscito a farsi finanziare anche dalle industrie, come Ely Lilly, Pfizer, Janssen-Cilag.
Con una particolarita’: i finanziamenti ottenuti sono a fondo perduto, cioe’ le compagnie non si aspettano nulla in cambio, cosa che lascia molta liberta’ ai ricercatori del Centro. In piu’, per evitare ogni rischio di condizionamento, tali finanziamenti non vengono impiegati negli studi di tipo farmacologico che il Centro conduce. “Abbiamo scelto questa strada, proprio per avere le mani libere” – spiega Tansella, il quale ha recentemente presentato anche una ricerca su un innovativo sistema di finanziamenti per i Servizi pubblici di salute mentale.
Lo studio ha verificato l’applicabilita’ di una sistema tutto nuovo, che prevede una sovvenzione a pacchetto, invece che a singola prestazione come si e’ fatto fino ad oggi in Italia. e’ possibile, cioe’, valutare quale sia il percorso e la strategia da seguire per riabilitare completamente il paziente, stabilendo fin dall’inizio il costo che gravera’ sulle casse dello stato.
Una volta che al servizio venga concesso il finanziamento stimato necessario, gli psichiatri diventano i case manager del trattamento, utilizzando le risorse disponibili all’interno dei servizi sanitari e sociali presenti sul territorio. Lo studio ha dimostrato che questo sistema e’ in grado di ottimizzare i costi e finalmente di fornire risposte adeguate al paziente, che viene seguito non piu’ a singoli spot, ma lungo tutto il percorso necessario per uscire dal tunnel della malattia.
Se l’Industria dirige lo Stato: il caso italiano
Un passaggio importante nel lungo percorso che porta nuove cure dal laboratorio di ricerca agli scaffali delle farmacie e’ quello della registrazione dei nuovi medicinali, fase in cui si valutano i dati sull’efficacia e la sicurezza, al fine di autorizzarne la commercializzazione.
Della questione si occupa, in Italia, l’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, voluta dal ministero della salute nel 2004. Oltre a decidere quali sono i farmaci che devono entrare in Italia – aspetto di cui si occupava in precedenza la Commissione Unica del Farmaco (la CUF) – l’AIFA si occupa di farmacovigilanza, cioe’ del monitoraggio dei farmaci gia’ in commercio, e controlla l’operato delle industrie nella tutela del cittadino.
Per le valutazioni, l’agenzia si avvale del giudizio della Commissione Tecnico Scientifica, la CTS, ex CUF, costituita da una quindicina di esperti nominati direttamente dal ministro della sanita’ e dai presidenti delle regioni. Per farne parte sono fondamentali sia la competenza sia l’assenza totale di conflitto di interesse con le industrie, che potrebbero fare pressioni per velocizzare la procedura di commercializzazione, a scapito delle valutazioni sulla sicurezza. Questa situazione si verifica infatti in molte parti del mondo, primi fra tutti gli Stati uniti, dove “la sezione della FDA- analogo americano dell’AIFA – che si occupa di approvare i nuovi medicinali, riceve la meta’ del suo supporto economico dalle industrie” ha tuonato in un duro “j’accuse” Marcia Angell, ex direttore della rivista piu’ prestigiosa per la medicina, il New England Medical Journal: “Le industrie pagano molti soldi per avere in cambio una commercializzazione piu’ veloce. Questo significa che la FDA ora dipende dall’industria, mentre dovrebbe regolarla”.
L’effetto, secondo la Angell, e’ che l’approvazione di farmaci di dubbio valore e’ troppo rapida e la rimozione di quelli con gravi effetti collaterali troppo lenta.
Alla luce di queste considerazioni, e’ spontaneo interrogarsi su certe politiche dell’AIFA, che in qualche caso sembrano tutelare piu’ l’industria che il cittadino. Uno dei primi obiettivi dichiarati dall’Agenzia, infatti, e’ proprio quello di accelerare la procedura di registrazione dei farmaci, “per favorire l’accesso rapido a nuove cure” – ha dichiarato l’agenzia in occasione della sua inaugurazione, senza pero’ spiegare se e come questo incidera’ sulla sicurezza. Un altro aspetto molto singolare e’ che alla Presidenza dell’Aifa sieda proprio un ex Dirigente di Farmindustria, la dottoressa Antonella Cinque, fatto che costituisce un vero e proprio conflitto di interessi. Altre perplessita’ si hanno quando, spulciando tra le nomine delle vecchie commissioni CUF e della nuova CTS, ci si accorge che molti degli esperti che ne fanno parte sono gli stessi da circa 15 anni.
La situazione e’ molto strana se si pensa che il mandato per un membro CUF prevedeva un massimo di 4 anni. Mandato che per la CTS e’ stato portato a ben 10 anni dall’ex ministro Sirchia, forse proprio per aggirare l’ostacolo delle nomine troppo spesso ripetute.
A cosa si devono queste anomalie ? Lo abbiamo chiesto direttamente alla dottoressa Cinque.
Dopo varie telefonate all’AIFA e dopo aver inviato le domande in anticipo, come ci e’ stato richiesto, la dottoressa ci ha comunicato attraverso la sua segretaria di non poter essere disponibile prima di una mese a causa di improcrastinabili impegni di lavoro, anche se, come abbiamo spiegato all’ufficio stampa della Presidenza, la conversazione avrebbe richiesto solo una decina di minuti.
Ci siamo rivolti allora al Prof. Del Favero dell’Universita’ di Perugina – uno dei nomi piu’ ricorrenti nelle commissioni CUF e attuale membro della CTS – per sapere a cosa sia dovuto lo scarso ricambio delle nomine: “Credo che questa scelta sia stata fatta perche’ si vuole una continuita’ di lavoro e anche perche’ di esperti indipendenti, incorruttibili e competenti in questa materia non ce ne sono molti”.
Il prof. Gessa, anche lui ex membro CUF, crede invece che “a premere per le riconferme di alcune nomine ci siano delle pressioni politiche trasversali, di quelle che sopravvivono ai governi. e’ probabile che l’Industria – sostiene Gessa – abbia dei propri paladini all’interno della commissione”.
Ma e’ possibile, invece, che, come dice Del Favero, non ci siano altri esperti abbastanza validi da sostituire i vecchi ?
Il Prof. Healy pensa di no: “Non e’ vero che non ce ne sono. Molti altri potrebbero essere nominati. La realta’ e’ che coloro che diventano esperti hanno spesso legami stretti con le industrie farmaceutiche per le quali devono registrare i farmaci”.
Riguardo al conflitto di interesse tra chi in precedenza ha lavorato per l’industria e successivamente si occupa di regolarla, Healy sostiene che “essere stati in passato tanto vicino all’Industria non e’ esattamente la cosa di cui si ha bisogno quando si siede al vertice di certe agenzie. Trovo che sia un comportamento molto difficile da giustificare. Come e perche’ certe cose accadano – conclude – sono due questioni di estremo interesse”.
Giriamo la questione ai vertici dell’AIFA, sperando che qualcuno trovi il tempo di rispondere.
By Laura Margottini – Tratto da: Scienza e Democrazia/Science and Democracy – 2005
www.dipmat.unipg.it/~mamone/sci-dem
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RICERCA FASULLA o FRAUDOLENTA
Fiona Godlee, direttore del BMJ, dedica il primo numero del 2012 alla ricerca condotta in modo fraudolento, un problema degno della massima attenzione. Dopo aver annunciato il Convegno sull’argomento che si sarebbe tenuto di lì a poco, cita l’editoriale scritto a quattro mani con Elizabet Wager, che passa in rassegna la situazione in varie nazioni a partire dal Regno Unito dove manca un’azione concertata. L’opinione prevalente è che il problema o non esiste o è di estrema rarità, come ha recentemente affermato il direttore del HEFCE, l’organismo che distribuisce i fondi per la ricerca alle Università britanniche.
Già dieci anni fa Richard Smith, ex direttore del BMJ, M. Farthing direttore di Gut e del Committee on Publication Ethics e Richard Horton, direttore del Lancet, avevano congiuntamente denunciato il fenomeno e con esso il fallimento dell’azione di contrasto.
Una metanalisi apparsa su Plos One nel 2009 riporta che il 2% dei ricercatori aveva fabbricato, falsificato o modificato i risultati delle proprie ricerche, mentre il 14% dei colleghi ne era a perfetta conoscenza.
Nel Regno Unito barare su una ricerca non è fenomeno isolato e le cose non vanno meglio in altri paesi.
Nel 2014 la Commissione Europea darà il via a un piano (Horizon 2020) che investirà circa 30 miliardi di euro in sei anni, per incrementare la competitività nella ricerca scientifica dei paesi dell’Unione. Purtroppo nel piano non è prevista una commissione che vigili sull’integrità nella raccolta dei dati. Per questo è stata proposta la formazione di un’Agenzia Europea specifica che vigili in tal senso sul progetto Horizon 2020. I risultati alterati e modificati possono causare danni diretti e anche la morte di molti pazienti.
Il Regno Unito merita di più, sentenziano Fiona Godlee ed Elizabet Wager. Anche l’Italia e qualsiasi altro paese meritano di più.
La parzialità e la distorsione dei dati mette in pericolo la salute dei pazienti, altera le evidenze, spreca i fondi, e non ultimo danneggia l’immagine della scienza medica nei riguardi del pubblico.
La ricerca medica condotta con inganno equivale ad avvelenare il pozzo. Così scriveva qualche anno fa Richard Smith, già direttore del BMJ, con una riuscita metafora del sapere scientifico a cui tutti noi attingiamo. Purtroppo la storia è ricca di pessimi esempi in tal senso, anche se forse la madre di tutte le truffe, almeno in epoca moderna, fu quella perpetrata da William Summerlin nel 1974.
L’immunologo statunitense pubblicò i risultati di un eccezionale trapianto.
Peccato che, come si scoprì a breve, i lembi di cute trapiantata su topini bianchi erano stati ottenuti con un semplice pennarello nero.
Si disse allora che ciò era avvenuto per un problema mentale del ricercatore e tutto cadde nel dimenticatoio, come spesso succede per avvenimenti del genere. Più di uno su dieci (13%) tra medici e ricercatori inglesi ha dichiarato di sapere che i colleghi avevano in passato alterato intenzionalmente o fabbricato ex novo i dati di una ricerca allo scopo di favorirne la pubblicazione, il 6% sapeva di fatti del genere anche nel proprio istituto, coperti da indagini insufficienti.
Così risulta dall’analisi di 2700 risposte (31%) a un questionario distribuito a più di novemila tra ricercatori universitari e ospedalieri che avevano pubblicato sul BMJ o erano stati peer-reviewers. Gli esiti di questa ricerca sono stati presentati al Convegno sulla frode nella ricerca medica che si è svolto a Londra il 12 gennaio 2012, in collaborazione con il COPE (Commmittee on Publications Ethics)L’obiettivo era quello di dare una definizione a questo tipo di condotta e di trovare una via efficace per contrastare il fenomeno.
Non esistono attualmente le premesse per responsabilizzare le istituzioni e gli autori di una ricerca, né c’è infatti un gran desiderio che ciò avvenga, forse non c’è nemmeno una reale conoscenza della gravità del fenomeno, ovvero non se ne vuol parlare per non sollevare un polverone. Alla fine del convegno si è ricordato che il progresso scientifico non procede per lenta evoluzione, ma piuttosto per scosse, per eventi rivoluzionari, separati da interludi di calma piatta.