I Germogli un dono della natura oggi disponibile con semplicità sulle tavole di tutti
Per prevenire le malattie (e o guarire da esse) non servono però necessariamente i farmaci chimici, ma si può ricorrere anche a frutta, verdura e germogli, che sono altrettanto ricchi di vitamine e sali minerali.
In particolare i germogli costituiscono veri e propri concentrati di vitamine, sostanze minerali e fibre; inoltre presentano un ridotto apporto energetico e un elevato contenuto di acidi grassi insaturi.
Particolarmente indicati per il consumo a crudo sono i germogli di cereali (grano, segale e orzo), di legumi (fagioli indiani o Mung, lenticchie o erba medica), ma anche di senape, sesamo e girasole.
I germogli di piselli, soia e ceci devono essere sbollentati prima del consumo, poiché contengono sostanze tossiche che la germinazione elimina solo parzialmente.
E’ bene imparare a far germogliare in casa propria il frumento e gli altri cereali, nonché la soia e l’alfa-alfa.
I germogli producono una miracolosa moltiplicazione dei valori nutritivi, a patto che i germogli vengano consumati crudi.
Allora si puo’ anche sorvolare su alcuni cereali, ricordando però che qualche pannocchia di mais cotta al calore all’interno del suo cartoccio, è un dono della natura. Miglio, avena, riso scuro integrale, grano saraceno, sono pure da mantenere.
Un buon piatto di pop-corn, fatti scoppiare in proprio senza aggiunta di sale o zucchero, ed associati a fichi freschi o anche alla banana sono cibi eccezionali, nutrienti, ricalcificanti.
vedi: Molecole Buone = Cibo adatto + Consigli Alimentari + Crudismo + Vegetarianesimo + Vegetariani 1 + Vegetariani 2+ Germogli
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La cucina dei germogli
I supermercati non mi sono mai piaciuti. Troppa plastica. Troppo polistirolo. Troppa “illuminazione ad effetto”. Finisco sempre per annusare ostinatamente frutta e verdura prive di qualsiasi traccia olfattiva e mi rattristo leggendo sulle etichette la lista di sostanze chimiche con cui sono state trattate.
Leggendo, proprio così. Perché il piacere del cibo non è più un atto spontaneo ma un’operazione mediata dall’intelletto. L’innocenza gastronomica è scomparsa da tempo, sostituita da un’anticipazione del piacere mediata dalla conoscenza del prodotto, dalla certificazione del luogo di provenienza e dal metodo di produzione.
Il sapore è diventato intellettuale. Necessariamente. Quando gli scaffali dei supermercati pullulano di imitazioni e contraffazioni gustative, per non rimanere deluso, lo spettatore esigente parte alla ricerca di un’autenticità certificata. E, solo dopo avere appurato che la tavoletta di cioccolato contiene il 70% di fave di cacao del Venezuela, potrà godere a tutti gli effetti dell’aroma che sprigiona effettivamente dal prodotto.
Per quanto possa sembrare laborioso, questo è un processo acquisito, perfettamente assimilato nella nostra quotidianità gastronomica, nei nostri comportamenti sociali, da quando ci facciamo sedurre dalla semantica delle pietanze descritte dai menù a quando rinunciamo al gusto tout court per consumare cibi puramente informativi ed “efficientisti”, come i fermenti lattici che abbassano il colesterolo o i biscotti che favoriscono il transito intestinale.
La nostra è l’epoca del sapore preventivo, l’epoca delle scelte e delle azioni che anticipano il gusto, dei sapori intellettuali che a volte sostituiscono il sapore delle cose vere. In una situazione del genere è raro stupirsi, difficile mettere in scacco l’intelletto con una pietanza i cui effetti sono più sorprendenti delle proprie aspettative. Eppure mi è successo. Là dove meno me l’aspettavo. In un ristorante di Bruxelles.
Un menù misticheggiante
Il mio modo di mangiare è cambiato radicalmente. Ho regalato le padelle per friggere agli amici. Mi è rimasta solo una pentola sulla quale sistemo i cestini di bambù per cuocere al vapore. Ho investito in un disidratatore e in un frullatore da combattimento. Per il resto la mia cucina è invasa da vasi e vasetti pieni di semi e grani diversi, a diversi stadi di germogliazione: ceci con piccole radici bianche, lenticchie sormontate da minuscole foglioline verdi e poi barattoli nei quali si intravedono i colori e le forme di una dozzina di germogli diversi, dal trifoglio rosso alla rucola, che verranno utilizzati per le insalate. Ci sono le mandorle, che rimangono a bagno per una notte, e che possono essere frullate con le lenticchie germogliate per preparare una deliziosa salsa cruda.
C’è il riso integrale, che dopo una notte nell’acqua cuoce più in fretta. In un angolo all’ombra è sistemato il barattolo del rejuvelac, una bevanda ricca di enzimi utili per la digestione, ottenuta facendo fermentare nell’acqua per qualche giorno il kamut, un cereale che non ha subìto ibridazioni e che contiene i 22 aminoacidi essenziali, quelli che il nostro corpo non è in grado di produrre da sé e che gli servono per assimilare le proteine.
Tutto questo ha un nome: la cucina o alimentazione vivente. Proprio come mi aveva spiegato Pol Gregoire, lo chef del ristorante di Bruxelles, mentre leggevo attentamente il menù salutista vagamente misticheggiante, con le pietanze ripartite in sattviche e radiasiche e rajasiche.
Niente roba fritta, niente pane, pasta, dolci a fine pasto. Perfino le minestre erano crude, preparate al momento e al massimo leggermente riscaldate.
Là dove il mio intelletto era rimasto scettico, il palato e lo stomaco avevano preso il sopravvento, lanciando segnali forti, inequivocabilmente positivi. Per la prima volta nella mia vita avevo mangiato pietanze gustose, copiose e alla fine di tutto ciò era mancata la solita sensazione di pesantezza. Non solo, al posto dell’abituale sonnolenza, si era presentata una carica energetica e vitale tutta nuova.
Cos’era successo esattamente ? L’organismo aveva gradito e mi aveva ringraziato con un piacere nuovo.
I piatti che avevo degustato erano in gran parte crudi – germogli freschi serviti con una salsa cruda di lenticchie e nocciole, radici e verdure quasi diementicate, fiori commestibili.
Al posto del pane tradizionale mi era stato offerto il “pane degli Esseni” – gallette sottili di grano germogliato fatto essiccare – una preparazione attribuita a una popolazione che viveva nei pressi del Mar Morto intorno al II secolo a.C. e che non utilizzava cibi cotti.
La carne, invece, era stata cotta per diverse ore a bassa temperatura, a meno 85 gradi, e servita con una salsa cruda di erbe aromatiche e verdure al vapore. La cottura a bassa temperatura l’aveva mantenuta succosa e le aveva dato una consistenza simile a quella del prosciutto crudo. Da un punto di vista chimico, questo procedimento di cottura non modifica la struttura proteica della carne, non distrugge le proteine e quindi “consegna” al nostro organismo un piatto più ricco e digeribile.
Lavorare con l’acqua
Il metodo della cucina vivente si può riassumere in un adagio assolutamente slow: lasciar fare alla natura.
Le preparazioni possono richiedere alcuni giorni ma non abbisognano mai di cure complesse. La più frequente cosiste nella germogliazione dei semi e dei cereali. A lavorare è l’acqua. Sembra banale, eppure basta mettere a bagno in acqua pura per una notte qualsiasi cereale, come facevano le nostre nonne, per attivare processi chimici che equivalgono a una predigestione degli alimenti. Poi però, a differenza delle nonne, che passavano alla cottura, l’alimentazione vivente prevede che si tolga l’acqua e che i semi vengano lasciati germogliare.
La differenza che può fare un’operazione così semplice è cruciale. Pochi sanno, ad esempio, che i cereali sono ricchi di proteine vegetali. Il grano germogliato contiene tante proteine quante la carne.
Queste proteine non possiedono la gamma completa degli aminoacidi essenziali perché difettano di uno degli aminoacidi necessari alla loro scomposizione in elementi assorbibili dall’organismo. Durante la germogliazione, però, sono prodotti gli aminoacidi mancanti e quindi le proteine diventano assimilabili al 100%. La presenza di vitamine aumenta in modo esponenziale, raddoppiando da due a cinque volte, secondo i giorni di germogliazione.
La germogliazione non è utile solo per i cereali come il grano, l’amaranto, il miglio, che poi sono cotti al vapore, ma anche per i legumi come le lenticchie o i ceci, che così diventano verdure fresche, ricche di vitamine e sali minerali. Per non parlare degli altri semi germogliati – aglio, cipolla, ravanelli, rucola, basilico, girasole – che contengono molte più vitamine e clorofilla di piante e verdure allo stadio adulto.
L’alimentazione vivente parte dall’idea che, per assimilare le sostanze nutritive contenute negli alimenti, l’organismo ricorra a una serie di enzimi digestivi che li scompongono in composti più semplici.
La chimica dell’assimilazione è un affare complesso. Non basta sapere che un alimento contiene proteine per essere sicuri che queste proteine saranno assimilate dall’organismo. E se l’alimentazione dissociata spiegava già che i carboidrati e le proteine sono digeriti da enzimi diversi in parti diverse dell’intestino e che quindi è meglio consumarli separatamente, l’alimentazione vivente si spinge molto più in là, individuando l’impatto vitale degli alimenti, il loro contenuto di enzimi nutritivi assimilabili dall’organismo senza bisogno di utilizzare i propri enzimi digestivi. Grazie all’acqua il patrimonio vitale dei cibi può essere modificato e migliorato, liberando le sostanze nutritive per renderle disponibili all’organismo.
Tratto da Slowfood 2. – By Maria Tarantino – Tratto da: editore.slowfood.it