INTRODUZIONE
Fino a ieri una proposta come quella che troviamo in questo libro ci avrebbe soltanto divertito.
E le ragioni per non prendere sui serio chi vorrebbe insegnarci a vivere di ciò che dà la terra sono fin troppo chiare.
L’agricoltura in Italia, anziché andare avanti col resto dei paese, è stata messa da parte come un’attività scomoda e mortificante. Fuori dalle città esiste soltanto un mondo arcaico in cui nessuno vuoi più vivere.
Per questo motivo lo spopolamento delle campagne ha assunto in tutti questi anni più le proporzioni di una fuga disordinata che di un ridimensionamento delle forze di lavoro.
Dai campi, dalle cascine, dalle stalle i giovani scappano perché non vogliono più saperne di un certo tipo di vita.
La terra in breve ha cessato di interessarli e se ne staccano senza rimpianti. Spesso ci sono anche i conti che non tornano, le dimensioni troppo piccole delle aziende, le proprietà spezzettate e situazioni altrettanto infelici come ad esempio quella di non riuscire a trovare moglie, ma prima d’ogni altra considerazione c’è la volontà di rompere con un mestiere che non è più all’altezza dei tempi.
Ecco perché il libro di Seymour ci avrebbe fatto ridere. Come si fa a immaginare che torni di moda coltivare la terra, allevare gli animali, piantare alberi da frutto, farsi il vino, il pane, costruire steccati, intrecciare vimini, ricavare dalle proprie braccia tutto quanto serve per vivere ?
La famiglia autosufficiente, in un mondo che non va al di là dei confini dei propri campi, è più un ricordo di vecchie favole che una realtà dei giorni nostri.
Viene in mente l’inventiva artigianale di Robinson Crusoe, ma lui aveva dalla sua parte l’impossibilità di un’altra scelta, e poi l’isola deserta era un’esperienza avventurosa.
La storia solitaria di un uomo che invece volta le spalle alla civiltà e decide di abbarbicarsi su un quadratino di terra per farne il suo nuovo impiego, per averne il sostentamento e i piaceri dell’esistenza, fa pensare più a un folle eremita che a una persona saggia.
Questo, dicevamo, fino a ieri. Ma i tempi stanno cambiando ed è per questo che bisogna prendere sul serio Seymour e il suo vademecum della sopravvivenza. C’è qualcosa di inquietante e di profetico nel modello di organizzazione familiare che in questo libro viene dettagliatamente illustrato.
Qualcosa che ci fa pentire di aver disimparato l’agricoltura, di aver soffocato un istinto ereditario che sopravvive in ognuno di noi, anche se da secoli in famiglia nessuno tocca una zappa.
Un lontano capostipite che lavorava la terra ci deve essere pur stato.
A sfogliare il libro di Seymour sentiamo appunto questo lontano parente farsi vivo e risvegliare a poco a poco sentimenti agresti. Non è ancora la rinuncia drastica alla città, il disimpegno dalla società in cui viviamo, la mobilitazione familiare verso dure fatiche rurali, ma semplicemente il desiderio di organizzare diversamente il week-end, di cercare un posto in campagna, di affittare una delle innumerevoli cascine abbandonate, di riattarvi qualche stanza e lì, nella quiete più assoluta, vivere le ore di riposo del fine settimana.
E’ il primo passo per un ritorno alla natura più impegnativo. Non passerà molto tempo infatti che nel nostro eremo campestre arriveremo con bustine di semi, sacchetti di concime e una serie di rudimentali attrezzi da lavoro.
Allora sarà fatta. Da quel momento torneremo ad avere un legame primitivo con la terra, anche se la terra per noi sarà soltanto qualche metro quadrato di orto, una striscia di spinaci, un’altra di piselli o di fagioli rampicanti, un pò di patate, un ciuffo di carote.
Dopo un approccio timido e maldestro, acquisteremo esperienza e saremo alle prese con una vera e propria febbre coltivatrice.
Presto i week-end non ci basteranno più e finiremo per passare in campagna anche le ferie senza la minima nostalgia del mare o della montagna.
A molti è già successo di riscoprire ataviche inclinazioni per l’agricoltura. Il libro di Seymour farà sicuramente nuovi proseliti e chissà che l’hobby dell’orto non diventi un fenomeno di massa. Ma c’è di più.
Se da un ettaro di terra è possibile una promiscuità di colture, di allevamenti e una produzione di derrate bastevoli per le esigenze di una famiglia, e se quest’alternativa è consolante nell’ipotesi che l’umanità precipiti in un altro medioevo, bisogna dire che l’autosufficienza è pur sempre una scelta drammatica.
Ma, a parte il nostro spirito di intraprendenza, questo libro è una lettura affascinante come il viaggio di un esploratore. E c’è da dire che a seguirne le istruzioni, a ripercorrerne le tappe, a farne cioè la nostra guida terrena, non è indispensabile accumulare guadagni, basta, alla fine, essere felici.
By Felice Campanello