Multiverso o Universi paralleli ?
– https://it.wikipedia.org/wiki/Multiverso
Gli universi paralleli sarebbero ospitali e potrebbero esservi forme di vita. Il risultato è frutto di complesse simulazioni teoriche, rimetterebbe in discussione la teoria del multiverso.
https://arxiv.org/pdf/1801.08781.pdf
L’universo è grande, ma potrebbe non essere unico: quanto è plausibile l’esistenza di universi paralleli ?
Secondo Stephen Hawking, esistono innumerevoli copie di noi stessi in innumerevoli altri universi dove la nostra vita è solo leggermente, o magari completamente, diversa da quella che conosciamo. Ma potrebbero esserci anche universi dove la vita non esiste affatto, perché le leggi della fisica possiedono parametri che non la rendono possibile. Negli ultimi trent’anni gli scienziati hanno accumulato indizi a favore dell’ipotesi del multiverso, secondo cui esisterebbe un numero enorme, se non addirittura infinito, di universi. Una volta dominio della fantascienza, quest’ipotesi potrebbe oggi spiegare tante stranezze della fisica, come i particolari valori delle costanti fondamentali, il Big Bang, le bizzarrie della meccanica quantistica, la natura ultima della realtà.
Ma sarà mai possibile riuscire a dimostrare l’esistenza di altri universi ?
Intervista impossibile a Hugh Everett III
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Universi paralleli esistono e potrebbero interagire – Esistono universi paralleli ?
La domanda è tra le più “grandi” che siano emerse dalla fisica del ventesimo secolo, e il dibattito è ancora aperto. Il contributo più recente viene da due fisici australiani, Howard Wiseman e Michael Hall, e uno statunitense, Dirk-André Deckert, con un articolo pubblicato qualche giorno fa su Physical Review X.
I tre autori sostengono che sembrerebbe non esserci nulla di sbagliato a immaginare che il nostro universo sia solo uno dei tanti: anzi, in questo modo si potrebbero spiegare alcune caratteristiche particolarmente “spinose” della fisica dei quanti.
La meccanica quantistica non è solo necessaria per spiegare il comportamento della natura a livello fondamentale: nella sua versione relativistica è anche la teoria più comprovata e “di successo” di tutta la fisica. Le equazioni, insomma, funzionano bene; ma non c’è ancora consenso su come vadano interpretate. «Dio non gioca a dadi», commentava per esempio un Albert Einstein particolarmente scettico sul ruolo apparentemente fondamentale della probabilità in meccanica quantistica.
Fu proprio nel dare un’interpretazione alla meccanica quantistica che allontanasse il “fantasma” delle probabilità che affiorò per la prima volta nella scienza moderna l’idea degli universi paralleli.
Era il 1957, infatti, quando il fisico americano Hugh Everett III formulò la cosiddetta “interpretazione a molti mondi” della meccanica quantistica. «La stranezza dell’interpretazione a molti mondi – spiega Wiseman, che è anche direttore del Centre for Quantum Dynamics alla Griffith University, – sta nel postulare che, ogni volta che si compie un’osservazione su un sistema quantistico in un universo, quell’universo si “dirama” in un certo numero di altri universi, uno per ogni possibile esito dell’osservazione».
Oggi l’interpretazione a molti mondi non gode di ampio successo, soprattutto per via del suo carattere fin troppo “bizzarro”: com’è possibile che un universo si dirami in più universi a mo’ di sliding doors? In che modo avverrebbe un fenomeno del genere? E inoltre, che cosa si intende esattamente per “osservazione” di un sistema quantistico? Se non osservassimo sistemi quantistici, l’universo non si diramerebbe? La coscienza umana ha un ruolo nel moltiplicarsi degli universi?
Wiseman, Hall e Deckert hanno sostanzialmente ideato un approccio alla meccanica quantistica simile a quello a molti mondi, ma privo di questi scomodi inconvenienti: hanno chiamato questo approccio “a molti mondi interagenti” (many interacting worlds). Secondo questa visione, ci sarebbero altri universi in numero sterminato, ma non infinito e soprattutto costante: in questo modo si elimina il problema della “diramazione”.
Ognuno di questi universi è caratterizzato da una fisica squisitamente classica: non c’è distinzione tra il comportamento della materia a livello macroscopico e a livello microscopico; in particolare, non esiste qualcosa come le funzioni d’onda o il principio di indeterminazione, e le probabilità non sono grandezze fisiche fondamentali: conoscendo posizione e velocità di ogni particella, si può stabilire in linea di principio l’evoluzione fisica dell’universo in maniera deterministica, come nella meccanica newtoniana.
Secondo il modello di Wiseman e colleghi, la presenza dei bizzarri fenomeni “quantistici” è dovuta al fatto che i vari universi non sono perfettamente “paralleli”. Questi infatti interagiscono tra loro: nello specifico, esiste una sorta di “repulsione” che impedisce loro di avere la stessa configurazione (ovvero, la stessa posizione e velocità di ogni particella). L’evoluzione di un sistema quantistico in un universo appare di natura probabilistica per via della nostra ignoranza su quale sia il particolare universo in cui il sistema quantistico evolve.
I tre scienziati hanno condotto delle simulazioni a computer di sistemi quantistici facendo uso del loro approccio, scoprendo che in questo modo si riesce a riprodurre alcuni fenomeni eminentemente quantistici come l’effetto tunnel, l’energia del vuoto e l’interferenza da doppia fenditura.
In altre parole, questi eventi potrebbero avvenire in universi completamente “classici” nell’ipotesi che questi interagiscano con altri universi simili secondo l’approccio a molti mondi interagenti. «La bellezza del nostro approccio – dichiara Wiseman – è che se c’è un solo universo la nostra teoria si riduce alla meccanica newtoniana, mentre se c’è un numero enorme di universi riproduce la meccanica quantistica».
L’approccio a molti mondi interagenti non è destinato a rimanere soltanto una questione accademica. Come annuncia lo stesso Wiseman, attraverso le sue applicazioni simulative può rivelarsi utile per «modellizzare la dinamica delle molecole, che è importante per comprendere le reazioni chimiche e l’azione dei farmaci». Bill Poirier, professore di chimica alla Texas Tech University, commenta: «Queste sono grandi idee non solo a livello concettuale, ma anche per le scoperte a cui quasi certamente daranno origine tramite le simulazioni».
Richard Feynman, uno dei più grandi fisici teorici del Novecento, ebbe a dire: «Nessuno capisce la meccanica quantistica». Questo perché nessuno riesce davvero a far propri i concetti più anti-intuitivi di questa teoria: si possono usare per fare predizioni matematiche, ma capirli davvero è un’altro paio di maniche. Con l’approccio a molti mondi interagenti non si è più costretti a capire le stramberie della meccanica quantistica, perché queste si ridurrebbero a “semplici” proprietà emergenti dall’interazione tra i vari universi. Il prezzo da pagare, naturalmente, è presupporre l’esistenza di un gigantesco numero di universi oltre al nostro.
Tratto da: scienzainrete.it
Un nuovo modello cosmologico basato sull’ipotesi di universi multipli potrebbe offrire una soluzione a due questioni ancora irrisolte nell’ambito del modello standard che riguardano il bosone di Higgs e la simmetria tra materia e antimateria. E le sue previsioni sono verificabili sperimentalmente.
La teoria delle stringhe postula un numero infinito di mondi: il nostro sarebbe soltanto uno di questi. Potrebbero quindi esserci delle copie di noi che stanno vivendo delle vite completamente diverse
Quando, agli inizi del Novecento, Max Planck scoprì che in realtà la luce (o meglio la radiazione elettromagnetica) non si propaga con un’energia continua, ma racchiusa in “pacchetti” di energia che chiamò quanti, questa visione ondulatoria della luce fu sostituita da una concezione corpuscolare: i quanti di luce, i fotoni, sono particelle dotate ciascuna di una determinata energia. Eppure, ripetendo l’esperimento della doppia fenditura sparando verso la barriera un fotone alla volta, dopo un po’ ecco che la figura d’interferenza ricompare. È come se il fotone (particella) oltrepassasse la barriera passando per entrambe le fenditure (come fosse un’onda). Se infine poniamo un rilevatore dietro ciascuna fenditura per capire da quale di esse il fotone oltrepassa la barriera, ecco che la figura d’interferenza scompare e vediamo semplicemente un insieme di punti luminosi sullo schermo in corrispondenza delle due fessure.
Nel 1927 Niels Bohr coniò il concetto di “complementarità” per spiegare il dualismo onda-particella: i due aspetti sono complementari, non possiamo osservare contemporaneamente la luce come onda e come insieme di fotoni, ma solo uno dei due aspetti a seconda dell’esperimento. La complementarità è una delle idee fondamentali della meccanica quantistica: si applica non solo ai fotoni, ma a ogni tipo di particella.Gli elettroni che, nella concezione classica, circondano in orbite precise il nucleo atomico, nella visione quantistica sono invece “spalmati” intorno al nucleo come nuvole di probabilità, e assumono una posizione precisa nello spazio solo se si compie una misurazione.
Nel 1937, durante una visita in Cina, Bohr ebbe modo di familiarizzare con le concezioni taoiste, in particolare con l’idea di complementarità espressa dagli archetipi polari yin e yang. Quando, anni dopo, fu investito di un titolo nobiliare e dovette scegliere il suo stemma e motto, adottò il simbolo cinese dal Taijitu e il motto Contraria sunt complementa (gli opposti sono complementari). Non meraviglia che il fisico austriaco Fritjof Capra ebbe tanto successo con il suo best-seller Il Tao della fisica, pubblicato nel 1975: la relazione tra fisica quantistica e pensiero orientale era già stata scoperta da Bohr quarant’anni prima.
Insieme a Werner Heisenberg, Bohr formulò la cosiddetta “interpretazione di Copenaghen” che propone una realtà quantistica indeterminata e probabilistica, che assume un aspetto reale e deterministico solo quando si compie una misurazione, quando cioè l’elemento quantistico interagisce con l’elemento macroscopico (un essere umano, un microscopio elettronico, un acceleratore di particelle). In quel momento avviene il “collasso della funzione d’onda”: quando spariamo un fotone contro la barriera, l’aspetto ondulatorio rappresenta un’onda di probabilità, che oltrepassa entrambe le fenditure e si estende per uno spazio molto più ampio; ma quando effettuiamo la misurazione, l’onda collassa in una particella puntiforme e varca solo una delle due fenditure. Il che vuol dire che, se non ci fosse un apparato di misurazione o un osservatore che compie la rilevazione, il fotone resterebbe eternamente nella sua componente probabilistica e indeterminata.
Nel 1962, aveva chiarito che la sua teoria prevede l’esistenza di innumerevoli “ramificazioni” della realtà: l’osservazione di un fenomeno non determina la “morte” di tutti i rami tranne uno, ma la loro contemporanea esistenza in altri universi.
Un altro famoso fisico austriaco, Erwin Schrödinger, attaccò l’interpretazione di Copenaghen con il suo celebre esperimento mentale del gatto: se si accetta che lo stato quantistico resti indeterminato finché non viene osservato, cosa avviene se mettiamo in una scatola chiusa un gatto, una fiala di cianuro, un contatore Geiger che misuri la radioattività e un isotopo radioattivo, il quale in caso di decadimento attiva il contatore, che a sua volta rilascia il cianuro della fiala uccidendo il gatto? Il ragionamento è il seguente: l’isotopo può rilasciare radiazione a seguito di un decadimento, ma resterà in uno stato di sovrapposizione tra due possibilità (decadimento o non decadimento) finché lo sperimentatore non aprirà la scatola per verificarlo. Ciò vuol dire che, fino all’apertura della scatola, non è solo l’isotopo a restare in uno stato indeterminato, ma anche il contatore, la fiala e il gatto, vivo e morto allo stesso tempo (proprio per via del principio di complementarità). Una simile situazione è del tutto contraria al senso comune. Schrödinger propose un’idea diversa in una conferenza nel 1952, sostenendo che le varie alternative che si verificano all’interno della scatola possono esistere in contemporanea: il gatto non si trova in uno stato indeterminato vita-morte, ma è vivo in una scatola e morto in un altra. Fu una boutade, ma cinque anni dopo venne ripresa e perfezionata dall’allora ventiquattrenne Hugh Everett III all’Università di Princeton. Everett si rese conto che il collasso della funzione d’onda era un artificio, un’invenzione dei fisici per spiegare perché, nel mondo reale, non assistiamo alla complementarità anche nei sistemi macroscopici come i gatti. Se abolissimo il collasso, dovremmo ammettere che tutte le probabilità espresse dalla funzione d’onda sono ugualmente reali in altri universi.
Il supervisore della tesi di dottorato di Everett, John Archibald Wheeler, rimase molto colpito da quella soluzione radicale. I suoi entusiasmi si raffreddarono, tuttavia, quando sottopose la bozza della tesi al suo mentore, Niels Bohr, a Copenaghen. Bohr la bocciò senza mezzi termini, costringendo Wheeler a sottoporre la tesi di Everett a un’ampia revisione affinché la nuova interpretazione della meccanica quantistica da essa espressa non risultasse una totale inversione di marcia rispetto a quella di Copenaghen.
Wheeler propose soprattutto che si eliminasse il concetto di “divisione” della realtà proposto da Everett, secondo cui ogni osservazione compiuta su un fenomeno quantistico non produce il collasso della funzione d’onda, ma la divisione dell’universo in due diverse varianti. Non sorprende che l’articolo con cui Everett presentò la sua tesi sulla Reviews of Modern Physics finì del tutto ignorato. A rilanciarlo, all’inizio degli anni Settanta, fu Bryce DeWitt, discepolo di Wheeler rimasto folgorato dall’articolo di Everett resosi conto che, nel suo ambiente, nessuno ne sapeva niente. In un articolo divulgativo pubblicato nel 1970 su Physics Today, DeWitt definì l’ipotesi di Everett “interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica”, e riprese questa fortunata definizione in un libro del 1973, The Many World Interpretation of Quantum Mechanics.
Everett, che nel frattempo aveva lasciato la fisica teorica per lavorare al Dipartimento della Difesa in attività collegate alle strategie nucleari della Guerra fredda, divenne quasi d’un tratto una star. Aveva nel frattempo avuto modo di rivedere la sua iniziale concezione della “divisione” della realtà. In un seminario privato con alcuni fisici di primo piano poco soddisfatti dell’interpretazione di Copenaghen, nel 1962, aveva chiarito che la sua teoria prevede l’esistenza di innumerevoli “ramificazioni” della realtà: l’osservazione di un fenomeno non determina la “morte” di tutti i rami tranne uno (per esempio tutte le diramazioni in cui il gatto nella scatola è morto anziché vivo), ma la loro contemporanea esistenza in altri universi. Non si verifica dunque alcuna divisione della realtà, ma la contemporanea esistenza di tutti i possibili risultati di un esperimento; il che, esteso a livello macroscopico, vuol dire la contemporanea esistenza di tutti i mondi possibili. Come nella biblioteca di Babele di Borges, dunque, tutto ciò che può esistere esiste da qualche parte, oltre l’universo che conosciamo.
David Deutsch, che insegna fisica all’Università di Oxford ed è oggi il principale sostenitore dell’interpretazione a molti mondi, ne dà la seguente spiegazione: «Ogni volta che osserviamo qualcosa – uno strumento scientifico, una galassia o un essere umano – in realtà guardiamo dalla prospettiva di un solo universo un oggetto più grande che si estende anche in altri universi. In alcuni di questi, l’oggetto ha esattamente lo stesso aspetto che ha per noi, in altri appare diverso o è del tutto assente. Quella che per un osservatore è una coppia sposata, in realtà è solo un frammento di una vasta entità che comprende molti esemplari fungibili della coppia, insieme ad altri esemplari dei due che hanno divorziato e ad altri che non si sono mai sposati».
L’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica comporta alcune conseguenze estremamente bizzarre. Una di queste fu ipotizzata dallo stesso Everett: pur essendo un ateo convinto, egli riteneva che la sua teoria implicasse l’immortalità. Se infatti esistono innumerevoli copie di noi in altri mondi (o universi) che differiscono dal nostro solo per qualche minimo particolare, e se queste copie sono tutte fungibili (come Deutsch specificava nella citazione riportata sopra), il che vuol dire che non sono come noi, ma sono noi (esattamente come tutte le monete da un euro sono fungibili, cioè possono differire per piccole imperfezioni ma sono dal nostro punto di vista interscambiabili), allora siamo destinati a non morire mai: più precisamente, non osserveremo mai la nostra morte, poiché continueremo a vivere in quegli universi dove siamo ancora vivi, mentre non vivremo più in quelli dove la nostra morte si è verificata solo dal punto di vista degli osservatori esterni (per esempio i nostri familiari). Quando, qualche anno dopo la morte prematura di Everett a soli 51 anni, sua figlia Liz si suicidò, lasciò scritto che stava raggiungendo il padre in un universo parallelo.
Il fisico e matematico Max Tegmark ha immaginato un esperimento mentale, il “suicidio quantistico”, che permetterebbe in linea di principio di verificare la correttezza dell’interpretazione a molti mondi: se prendiamo una pistola che spara un proiettile solo quando – come nella scatola del gatto di Schrödinger – un isotopo in sovrapposizione quantistica effettua un decadimento radioattivo, mentre nell’interpretazione di Copenaghen l’interazione tra l’isotopo e l’aspirante suicida che preme il grilletto provoca il collasso della funzione d’onda, per cui la pistola ha il 50% di possibilità di sparare un colpo, nell’interpretazione a molti mondi potremmo premere il grilletto quante volte vogliamo, ma non moriremmo mai. In molti universi, qualcuno scoprirebbe certo il nostro cadavere, vittima di questa macabra versione quantistica della roulette russa; ma continueremmo a vivere nelle altre ramificazioni dell’universo. Il fisico del MIT Seth Lloyd ha offerto un milione di dollari a chi volesse sottoporsi a un simile esperimento, ma non ha trovato finora volontari: Don Page, suo collega e convinto sostenitore dei molti mondi, adduce come giustificazione il fatto che l’esperimento lascerebbe pur sempre vedove molte copie di sua moglie.
Tegmark, d’altro canto, è così persuaso dall’ipotesi del multiverso, da averla elaborata nel suo libro L’universo matematico fino a incorporare la congettura di Everett nella più ampia teoria dell’Universo Matematico da lui proposta: tutte le strutture che esistono sul piano matematico esistono anche sul piano fisico. Vale a dire che i molti mondi di Everett, versioni diverse del nostro, non sono che un sotto-insieme del vero multiverso, che comprende anche universi basati su strutture matematiche completamente diverse dalle nostre, ciascuno con i suoi “molti mondi”, ossia infinite varianti possibili.
Nel loro libro Ogni cosa è indeterminata – una disamina dell’impatto nell’immaginario popolare della fisica quantistica – Robert Crease e Alfred Scharff Goldhaber riconoscono che la teoria di Everett sia «una delle meno plausibili e realistiche di tutta la storia della scienza»; eppure ci sono fior di fisici contemporanei, come David Deutsch o Stephen Hawking, che l’accettano senza riserve; in un sondaggio informale condotto da Max Tegmark a un convegno tenuto nel 2011 in Austria sul tema “Fisica quantistica e natura della realtà”, il 18% dei convenuti si è espresso a favore dell’interpretazione a molti mondi. Resta certo una tesi minoritaria, ma per molti assolutamente credibile. I due studiosi spiegano così il suo appeal: «Un nostro collega, uno psichiatra, parla spesso dell’impulso irrefrenabile – suo e dei suoi pazienti – di dire “avrei dovuto fare in quell’altro modo!”, riferendosi al bisogno di accompagnare questa frase con il bisogno di chiedersi che cosa sarebbe accaduto optando per l’altra scelta. La sola idea che avremmo potuto decidere diversamente ci rassicura».
Se dal punto di vista epistemologico la meccanica quantistica è una descrizione precisa e sperimentalmente verificabile (nonché verificata quotidianamente dagli esperimenti) del mondo sub-atomico, dal punto di vista ontologico resta un profondo mistero. Non c’è da meravigliarsi della grande presa che esercita sull’immaginario collettivo. Crease e Goldhaber parlano di quantum moment, di “momento quantistico”, per definire l’epoca culturale in cui viviamo, successiva al “momento newtoniano” che vide il trionfo della concezione deterministica del mondo. L’accettazione dei paradossi della fisica quantistica, di concetti radicalmente contrari al senso comune come la complementarità, la sovrapposizione di stati, l’indeterminazione, il rapporto tra osservatore e sistema osservato, fino ai molti mondi della teoria di Everett, non sarebbe mai stata possibile in epoche precedenti. Il “momento quantistico” è coinciso con un’epoca “dissociata” che è quella in cui viviamo, in cui la tradizionale idea che la realtà possa essere completamente conoscibile e comprensibile è stata definitivamente abbandonata, per far spazio a idee nuove e radicali. Magari gli universi paralleli e le biforcazioni della realtà non esisteranno davvero; ma risulta sempre più evidente che la realtà è definita dai modelli che usiamo per descriverla, e che questi modelli sono legati al “momento” culturale dell’epoca in cui li elaboriamo.
By Roberto Paura (1986) svolge un dottorato di ricerca in comunicazione della fisica all’Università di Perugia. Giornalista scientifico, ha lavorato per Fanpage e per la Città della Scienza di Napoli, ed è attualmente direttore della rivista Futuri dell’Italian Institute for the Future, redattore per Quaderni d’Altri Tempi e collaboratore per Il Tascabile e Query. Cura inoltre la collana di divulgazione scientifica Megaverso per le Edizioni Cento Autori, in cui è apparso quest’anno il suo libro Universi paralleli. Perché il nostro universo potrebbe non essere l’unico.
Tratto da: indiscreto.org
I detrattori dell’ipotesi del Megaverso sostengono tuttavia che questa non è una teoria scientifica, in quanto per principio non può essere dimostrata l’esistenza di Universi paralleli al nostro.
In realtà, esistono delle verifiche sperimentali che, se non possono provare senza alcun dubbio la presenza di una miriade di mondi paralleli, ne rendono più plausibile l’esistenza corroborando particolari aspetti della teoria delle stringhe. La scoperta delle particelle supersimmetriche previste da questa teoria, ad esempio, costituirebbe un indizio importante della possibile esistenza del Megaverso.
Sul tema degli universi paralleli la Scienza si è interrogata per anni, arrivando a formulare varie ipotesi e teorie. Ogni qualvolta ci troviamo a prendere una decisione, diamo vita ad un universo “alternativo”, in cui la versione alternativa di noi ha fatto la scelta opposta, portando inevitabilmente ad altre catene di eventi. Impensabile per qualcuno. Eppure ci sono scienziati che non solo credono all’esistenza degli universi paralleli, ma sono sicuri che questi interagiscono continuamente. Professor Howard Wiseman e il dottor Michael Hall della Griffith University di Dinamica Quantistica, in collaborazione con il dottor Dirk-Andre Deckert dell’Università della California, sostengono che gli universi paralleli sono una realtà e si influenzano a vicenda attraverso la meccanica quantistica.
La teoria del multiverso è sempre stata vista con occhio scettico dalla fisica classica, ma i ricercatori credono di avere i mezzi per dimostrarlo.
L’interazione tra gli Universi
“L’idea degli Universi Paralleli si è sviluppata intorno al 1957. Nell’interpretazione dei multi mondi, ogni volta che viene eseguita una misurazione quantistica si crea un nuovo ramo dell’universo, in un gruppo di nuovi universi”, ha affermato il professor Wiseman. La questione è molto più semplice di quello sembra. Immaginiamo di trovarci in una situazione in cui potrebbero verificarsi “finali differenti”.
Un esempio potrebbe essere il classico biglietto della lotteria: purtroppo non ho vinto, ma in un altro Universo invece c’è una versione alternativa di me che è diventata milionaria e in un altro ancora, la mia copia non ha neanche comprato il biglietto.
Questo succede anche quando si prendono delle decisioni: le alternative sfociano tutte in Universi Paralleli, come nel famoso film Sliding Doors per intenderci. Addirittura In un recente studio pubblicato su arxiv.org, i fulmini globulari vengono visti come una porta che fa interagire questi vari Universi.
Non tutti gli scienziati però credono che questa teoria sia valida.
Ma il professor Weiseman e il suo team sono convinti che coesistiamo sulla stessa linea del tempo con infiniti Universi Paralleli. E’ bello sognare che in un futuro, si possa trovare il modo di interagire con le nostre “copie”.
Tratto da: it.blastingnews.com
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