Il Mistero di Atlantide
Ecco il dialogo platonico riguardante la descrizione della civiltà di Atlantide.
All’inizio vi è un breve riassunto commentato dal Turolla.
…da Platone completamente accettata e da lui portata nel famoso mito del Politico a possente sistemazione, esiste nell’origine dei tempi una vera e propria teocrazia, nel senso che l’uomo in quei secoli prischi ebbe per governanti gli Dei. Dei pastori essi erano del gregge umano, nel rapporto nel quale l’uomo stesso può essere pastore di creature inferiori (pecore, capre e simili). A tale scopo gli Dei si divisero la terra tutta quanta ed ebbero principio queste dinastie divine di cui parlano effettivamente le storie degli egiziani e di altri popoli. Il re – pastore della terra atlantica è Poseidone e da lui provengono speciali provvidenze e provengono anche gli uomini che dettero origine alla dinastia atlantica. I nomi sono greci; Platone tuttavia ha cura di avvertirci che i nomi dei personaggi, già nella fonte egiziana, erano stati tradotti in egiziano e che Solone stesso con l’intenzione di fare con questo argomento un poema li aveva già tradotti in greco. Ora, il secondo gemello della prima coppia ha il nome greco Eumelo, ma accanto ad esso è riportato il nome indigeno Gadiro. E questo nome non pare certo inventato, se realmente esistevano due località di questo nome nella regione che doveva antistare alle isole atlantiche e precisamente alla parte dì esse che dal re di questo nome aveva ricevuto il nome.
Insomma il nome di Gadiro non è venuto per caso nel testo platonico; e dietro il mito potrebbe esserci ancora una volta la storia. Certo, la trasformazione mitica che indubbiamente c’è, non è dovuta a Platone; anche qui egli è portatore d’una voce che viene di più lontano. Egli ha ricevuto, ha sistemato; non ha inventato; anzi ha conservato fedelmente, come l’accenno al continente al di là del mare (Timeo, 25ai) senza possibilità di dubbio, dimostra (i). Sarà del resto casuale soltanto la coincidenza tra le zone concentriche scavate da Poseidone nel cuore dell’isola, la coincidenza con la struttura di città messicane preistoriche ? Certo la zona atlantica è costituita da un intreccio dì acqua e terra in anelli concentrici. E con simile criterio erano costruite le città americane.
Certo ancora Platone, quando diceva questo particolare, non aveva veduto: solo egli aveva udito, ed egli ripeteva fedelmente.
Duemila anni dopo, con Cristoforo Colombo, gli uomini poterono vedere in atto questo strano partito costruttivo di cui, crediamo, nessun esempio reale esiste nel vecchio mondo.
Certo, dice uno studioso del problema, l’isola con una montagna circondata da anelli concentrici di mura e di canali, simile all’Acropoli nella capitale degli Atlanti, viene raffigurata anche nei disegni aztechi dell’Aztlan, la patria appunto degli Aztechi. Dove è notevole la consonanza Aztlan con Atlante.
Evidentemente le isole erano separate da un largo tratto di mare da un grande continente che stava al di là di esse.
Ripeteremo anzi che, se veramente Platone avesse inventato la notizia, l’accenno al continente che stava dirimpetto non gli si sarebbe potuto presentare; questo continente, ch’è certo l’America, è fuori dei ciclo delle idee che Platone, ammettiamo, avrebbe dovuto inventare. Quando egli aveva parlato di isole, il suo compito era finito e nulla avrebbe potuto spingerlo ad aggiungere il particolare in sé inutile del continente opposto.
È proprio qui, in quest’aggiunta, inutile al racconto, la prova più decisiva; Platone riferisce qui, non inventa, per la semplice ragione che né lui né Solone, né Sonchis potevano sapere che quel continente, di cui qui e qualche riga più sotto fa esplicito accenno, davvero esisteva, * e da queste isole (il passaggio s’apriva) ad un grande continente che sta di fronte e ricinge quello che veramente è mare aperto…
Oh ! ma quello sterminato mare, mare è veramente e la terra che lo ricinge, con tutta verità si potrà dir continente *. (Tim,, 25 a).
Giochi del caso ? Certo finché si tratta di una combinazione. Ma cosa dovremmo dire quando le combinazioni si allineano in serie numerosa ?
Prodotti naturali dell’Atlantide (II4d3-1I5c3). – Quando abbiamo paragonato l’esposizione dell’Atlantide ad un tipo di opere come la Germania di Tacito, la nostra osservazione poteva forse sembrare esagerata.
L’ulteriore lettura del testo ci porta invece sempre più a constatarne l’esattezza. Comincia qui in realtà un trattazione circostanziata e nello stesso tempo del tutto sobria e del tutto concreta, rivolta a porre in luce le caratteristiche singole del paese.
Dopo un accenno generale alla ricchezza di quell’impero, Platone possa ad annoverare i prodotti dei suolo. In primo luogo i minerali. La notizia più importante è quella che esisteva nell’Atlante un metallo di cui oggi non si conosce più il nome. l’oricalco; metallo certamente esistente e poi scomparso. D’altra parte all’oricalco accennano altri autori, per i quali tuttavia (Scudo d’Eracle attribuito ad Esiodo, Aristotele e altri) vale senza dubbio la ragione ch’essi parlano d’un metallo diverso da quello dell’Atlante; questo è un metallo semplice, come è detto più avanti, uaQf&aevyàg IXoy nvedAet; (i r6c2). Quello degli altri autori è un metallo composto; resta insomma che noi ignoriamo, e certo Platone stesso ignorava, cosa fosse l’oggetto ch’egli chiama con questo nome.
Così, quando Platone riferiva la notizia d’un continente esteso oltre le isole dell’occidente, non poteva in nessun modo sapere per esperienza quanto vera ed esatta fosse quella notizia. Sono passati i secoli, e di essa noi possiamo misurare la corrispondenza col vero; per l’oricalco per ora e forse per sempre ignoreremo e resteremo nel dubbio.
Seguono i prodotti della fauna e della flora. La fauna non registra nulla di particolare, tranne il particolare, che dice poco in ogni caso, dell’elefante, il più vorace degli animali jroAvßopáraTog. La flora appare ricchissima.
Strano è il modo enigmatico con cui Platone ci parla di alcuni frutti. Il Rivaud lascia incerto se si tratti dell’oliva, della mela granata e del limone, o non piuttosto sì tratti di frutti esotici come, per esempio, la noce di cocco, le carrube e i datteri. Si può forse osservare che il modo con cui Platone nomina i tre frutti rende più probabile l’identificazione con la seconda serie di oggetti, Per i primi, noti nel mondo greco, bastava solo il nome e non c’era bisogno d’una designazione ulteriore. Gli altri tre invece poco noti e il cui nome certo nulla diceva alle menti, dovevano esser designati per mezzo delle loro proprietà.
Resta, crediamo, esclusa invece la probabilità che la designazione di tali prodotti nella fonte egiziana fosse fatta in questo modo. L’esame attento anche di questa parte ci ha portato ad individuare larghe zone di probabilità per la narrazione platonica; essa in ogni caso è concreta e succinta. Si pensi come sarebbe stato facile lasciarsi andare a particolari strani e mirabolanti. Lo stesso rapporto che c’è tra i Vangeli e gli evangeli apocrifi.
D’altra parte la natura dello spirito platonico, anche per i tempi stessi in cui visse, è profondamente diversa da quella d’un Luciano che inventa per il gusto d’inventare.
Continua la descrizione delle singole opere costruite dai sovrani succedutisi nel regno e l’uno e l’altro rivaleggianti per abbellire la regione e la loro stessa dimora. Anche qui l’esattezza dei particolari non permette se non due risoluzioni: o un atteggiamento romanzesco in Platone, che, ripetiamo, è estraneo alla natura dell’uomo e dei suoi stessi tempi; oppure la rispondenza ad una verità pervenuta a Platone in un modo qualsiasi che difficilmente è altro da quello ch’egli stesso viene esponendo.
La prima risoluzione porta poi seco, come conseguenza, la svalutazione della scrittura in se stessa del Crizia.
Che significato avrebbero tutti questi particolari così minuti? Queste misure precise? Certo, ammessa l’origine fantastica del racconto, si dirà che Platone voleva dar concretezza al suo dire; ciò è vero; vero anche che la minuta elencazione diventa qui e in ogni dove eccessiva. Certo questo dell’Atlantide, come dicevamo in principio, è un mistero. La prova palmare sarà sempre difficilmente ottenuta. E il mistero si presenta alle nostre menti per fede e per tale via le nutre secondo particolari suoi atteggiamenti e con risoluzioni sconosciute alla cognizione scientifica e aperta. Se neghiamo fede alla narrazione di Platone, andiamo incontro ad inconvenienti, dobbiamo negare una quantità di ragioni; se d’altra parte affermiamo, nemmeno possiamo raggiungere la certezza positiva.
Pare quasi che una nebbia offuschi gli sguardi nostri; una nebbia ch’è opaca, e nello stesso tempo, per misteriosa ragione, pur lucida è questa nebbia. La essenza del mistero appunto opaco ad una visione razionale, traslucido ad una visione ulteriore. Mistero, in ogni caso, questo dell’Atlantide, pur sempre radicato nel visibile essere; piccolo mistero, vorremmo dire. Iniziazione tuttavia e insegnamento ad ulteriori grandi misteri, di fronte ai quali parimenti l’uomo iliaco è cieco.
Resta ora da fornire qualche indicazione sui singoli particolari.
li testo si rifà a quella struttura concentrica di canali separati da zone secche che cingono il nucleo dell’isola madre, struttura che Platone fa risalire a Poseidone e che, per la sua stranezza e per la sua particolarissima ragione, ben difficilmente può esser parto di fantasia.
Indicheremo ora le dimensioni delle opere accennate in questo capitolo.
Il canale rettilineo che mette in comunicazione il mare col canale circolare esterno (i canali circolari sono stati scavati da Poseidone) è lungo 8880 metri (cinquanta stadi); largo 88 metri; profondo 29 metri; questo canale viene quasi a costituire un porto alle navi che provengono dal mare. Da notare a questo proposito la dimensione esagerata della larghezza. Quasi cento metri è una larghezza inusitata per un canale. Ci si può chiedere ora: non se n’è accorto Platone ? é possibile che se la misura fosse di pura fantasia, Platone attribuisse, senza dar nessuna ragione, una simile dimensione di cui era patente la scarsa veridicità ? Se Platone avesse inventato, possiamo esser più che sicuri, si sarebbe ben guardato dall’attribuire questa dimensione ai suoi canali.
Al contrario la cosa è ben diversa se egli non fa che ripetere fedelmente alcune cifre che rispondono ad una certa realtà particolarissima. Gli è che questi canali non hanno scopo commerciale di navigabilità. Le cifre e le dimensioni, come, per esempio, le dimensioni delle Piramidi, hanno tutte una significazione particolare che a noi sfugge ma che indubbiamente esiste (i).
Ciò è tanto vero che (i 5e3) il canale a scopo, diremo, pratico è assai più stretto. Viene così, Come nota espressamente il testo, che la pianura è difesa dai venti d Nord, aperta ai venti caldi. Ciò conferisce dolcezza di clima. La forma di questa pianura è oblunga; presenta un lato di tremila stadi e un lato di circa duemila.
(in misure moderne chilometri 533 per chilometri 359).
Sistema di canalizzazione.
Tutta la pianura è circondata da un grande canale; ne sono date anzi con la solita esattezza le precise dimensioni; profondità, un peltro (metri 9,60); larghezza, uno stadio (metri 177,60); questo canale s’interrompe nei pressi della capitale e ai getta poi in mare ai due lati opposti della città stessa il cui sistema concentrico di anelli di terra e di acqua rimane dunque staccato. La sua lunghezza totale era di 1770 chilometri, cioè dieci mila stadi.
Oltre a questo grande canale vi sono trenta canali rettilinei, invece, e l’uno all’altro paralleli. Lo scopo di questi canali è di assicurare l’irrigazione alla pianura; distano l’uno dall’altro secondo un intervallo di cento stadi, cioè di circa venti chilometri 0776o metri ciascuno); vi sono poi canali obliqui e convergenti verso la capitale. Servono a convogliare agli abitanti della città i prodotti della pianura e della montagna.
In quanto alla pianura (se ne ricava facilmente la superficie: chilometri quadrati 191.38r; per confrontare daremo: Islanda ioz.850; Inghilterra 243.411) essa è state divisa in 60.000 distretti di circa tre chilometri quadrati ciascuno; questi distretti sono soprattutto organizzazioni militari per rendere possibili le leve in caso di guerra.
Platone dà il numero esatto anche delle formazioni militari: 10.000 carri da combattimento; 240.000 cavalli, 1.200.000 combattenti; 240.000 marinai capaci d’organizzare una flotta di 200 navi.
Inoltre l’insieme dei distretti forma a sua volta dieci province di cui è capo uno dei dieci re. Perché le cifre fornite valgono solo pei distretti della pianura, alle dimensioni di essa si debbono aggiungere le zone montane, ricchissime e popolose di cui Platone non dà il numero: esse tuttavia venivano arruolate nei distretti della pianura.
Autorità regia; sacrificio del sangue (xxgcx -i2odS)
Precede un accenno che dimostra il sistema con cui è governato questo impero federale. Ciascun re nel proprio territorio è signore; vi sono tuttavia disposizioni che regolano i vicendevoli rapporti dei dieci sovrani; queste disposizioni stanno incise, per immobile ricordo, su colonna di oricalco, posta nel cuore della città a centri concentrici.
E sino a qui non si esce da notizie, diciamo così, normali. Quanto segue invece è un racconto pieno di luce misteriosa; un raggio di luce che rivela riti e pratiche religiose, non solo remotissimi, ma anche pratiche e riti pieni di significazioni. Si tratta dei momento più solenne per i dieci re: il giuramento di regnare secondo giustizia; così pure il giudizio ch’essi pronunciano contro chi di essi avesse commesso opera non conforme allo spirito della tradizione.
Qui cominciano ad affiorare motivi (i2oa-b2) propri di Platone.
Decadenza dell’Atlantide e suo cause (i 2od6 -fine)
Coi capitolo precedente l’esposizione delle caratteristiche e delle condizioni geografiche dell’Atlantide è finita.
Ora dovrebbe cominciare la narrazione di storici eventi; cioè l’esposizione di quella guerra nella quale tanto rifulse il valore di Atene preistorica. Ebbene, a questo punto, il dialogo rimane invece improvvisamente interrotto.
Platone ci dà soltanto una pagina che dovrebbe preparare gli eventi, e, nel momento d’accingersi a trattarne, l’accenno ad un partito di carattere omerico: il concilio degli Dei. E ne sono date soltanto alcune parole.
Si può restare dubbiosi sull’efficacia dei partito epico, anche fra le mani d’un grande pur capace, anche nelle poche righe composte, d’infondere una sublimità che a questo proposito il canto omerico non possedeva; sublimità e austerità. In ogni caso Platone stesso, crediamo, ha sentito la poca efficacia del mezzo; egli stesso ha lasciato stare. L’accenno è tuttavia prezioso per noi,
Qui indubbiamente siamo nel campo della fantasia e dell’invenzione personale.
La sola scena che Platone ha abbozzato, ha caratteri di genericità, di indeterminazione, di poeticità; l’opposto insomma vero e proprio dei caratteri specifici, determinati, pratici, della parte geografico – monografica, in cui, se riconosciamo volentieri, come poco fa si disse, un apporto di sintesi e di unificazione che risale in pieno al Maestro, riconosciamo tuttavia che alla sua grandezza non mancava l’appoggio della realtà. Ciò spiega la potente incisione di quelle pagine che non sono poetiche, non hanno poeticità, non hanno verità fantastica, bensi verità proveniente da una visione reale.
Da ciò i loro caratteri di concretezza e d’incisione.
In quanto alle ragioni annoverate da Platone per spiegare, sia la grandezza degli atlantidi, sia la loro decadenza; esse sono (e si capisce bene) totalmente, stupendamente platoniche. E tali non possono non essere, dato che hanno quale ineta il giudizio su certi eventi, e questo non può non essere personale –
Qui naturalmente puntano in piena forza le linee speculative di grandi opere precedenti; la mente ne coglie l’ce – o profonda e le conseguenze complete. Il che è naturale; ma ancora una volta dimostra il carattere obiettivo e reale della precedente parte, ove invano si cercherebbero venature di filosofia platonica.
DIALOGO
Timeo – Quale senso di soddisfazione, o Socrate! Quasi avessi p. 106 fornito lungo tratto di cammino, ecco il mio luogo di riposo. Con quanta gioia ora mi sento libero dai lunghi tramiti del ragionamento! E innalzo preghiera a quel Dio che un giorno antico veramente nacque alla vita, e che poco fa anche nacque, pur rievocato soltanto 5 da parola. Possa egli concedere che questi nostri discorsi, quanti almeno hanno in sé giusta misura, abbiano modo di perpetuarsi h nel tempo; se invece, pur contrariamente al nostro volere, avessimo proferito verbo dissonante, opportuna riparazione a noi quel Dio possa imporre ! Ed è riparazione giusta che chi ha emesso discordante voce sia ricondotto ad accordo armonioso.
Quindi lui stesso 5 (e per questo innalziamo viva preghiera) concederà a noi cono. Scienza, farmaco perfetto, di tutti i farmachi il più sublime. Così potremo esporre con retta parola quanto rimane sull’origine di Dei. E ora, dopo la preghiera, secondo i patti, affidiamo a Crizia successiva argomentazione.
Crizia – Accetto l’incarico, amico Timeo. Ma come tu pure hai fatto in principio, quando chiedesti venia, conscio di dover e trattare un argomento così sublime: ebbene, lo stesso farò io pure. Anzi vorrei che più grandi ancora fossero in voi i sensi di compatimento, pensando al tema che dovrò svolgere. Purtroppo, sono conscio che questa mia richiesta vi sembrerà un pò presuntuosa e un pò brusco il modo con cui la chiedo. In ogni caso, la farò pur sempre.
Pensate un pò. Chi avrà il coraggio di dire che la tua trattazione 5 non sia stata condotta nel modo più perfetto ? Su questo punto non occorre dimostrazione. Difficile, invece dimostrare che i prossimi argomenti, perché più difficili, hanno bisogno di più forte venia. Vedi, Timeo, quando, rivolgendosi ad uomini, si espone qualche verità sugli Dei, è più facile trovare un consenso che non quando si parla di mortali ad altri che pure sono mortali.
Viene l’esperienza e l’oscurità in cui si trovano gli ascoltatori in rapporto a quei problemi concedono, a chi deve parlare in proposito, facile l’argomento; oh! sappiamo benissimo a che cosa si riducono le nostre cognizioni sulla Divinità. Seguitemi anzi un pò da questa parte, voglio manifestarvi più chiaro il mio pensiero.
È inevitabile che qualunque cosa si dica, sia imitazione e immagine. Osserviamo un pò tuttavia come vadano le cose, se si tratta di immagini fatte da pittori. Pensiamo un pò alle lodi o alle critiche degli spettatori per il grado maggiore o minore d’abilità in rappresentare l’effigie d’un corpo umano o divino. Vedremo una cosa.
Quando si dipinge la terra, montagne fiumi boschi, oppure il cielo tutto quanto, gli astri nel suo grembo e che in lui procedono: in tal caso, ci sentiamo soddisfatti, se l’artista sarà stato capace di renderne un pò, anche per breve tratto, la somiglianza. Inoltre siccome non ne sappiamo nulla di preciso, non ci mettiamo nemmeno ad esaminare attentamente e a discutere sulla rappresentazione.
Ci basta quella specie di scenario impreciso e illusorio.
Al contrario, con acutezza particolare percepiamo i difetti, se c’è un artista che ponga mano ad effigiare le sembianze dei nostri organismi, perché veniamo considerando quegli oggetti con diuturna osservazione.
E prendiamo le parti di giudici severi contro chi non è riuscito a tradurre completamente ogni nota di similitudine. Ebbene, lo stesso fatto si viene verificando anche a proposito di parola.
Quando si tratta di cose celesti, d’argomenti relativi alla Divinità, siamo contenti se nelle nostre parole il rapporto di similitudine è scarso. Invece per le umane e mortali vicende più esigente è la nostra critica.
In conseguenza, nel caso in cui non mi riuscisse d’attribuire completo il dovuto carattere a quanto dirò, voi certo mi compatirete.
E poi, sono cose dette così, senza alcuna preparazione. Oh! dovete pensare che noti è facile effigiare le mortali vicende dell’umana storia; difficile, bensì, in quanto oggetto d’opinione.
Ho detto tutto questo, perché era pur necessario che ne fosse vivo il ricordo nelle vostre menti. Inoltre, Socrate, per richiedere da voi in rapporto a quanto dovrò dire sentimenti d’indulgenza, non minori; bensì, maggiori. E se giusto a voi pare tale dono, oh! di buon animo, via, concedetelo.
Socrate – E perché non dovremo darti questo dono, o Crizia ? Anzi, guarda, questa medesima concessione anche ad uso di Ermocrate che è il terzo interlocutore. Eh! Si capisce, perché fra poco, quando verrà la sua volta, farà la stessa richiesta che avete fatto voi. Allo scopo, dunque che egli abbia modo di trovare facilmente un altro proemio, e perché non si trovi nella necessità di ripetere sempre le stesse cose, stia pur tranquillo e quando sarà il suo turno anche cominci a parlare, sicuro di trovare da parte nostra ogni senso d’indulgenza,
Del resto voglio fare una dichiarazione iniziale, mio caro Crizia, per farti vedere quali siano le intenzioni dei tuoi ascoltatori.
Vedete, il primo poeta ha avuto un enorme successo di fronte al suo pubblico. In conseguenza ti sarà necessario cercare in sommo grado il favore del tuo uditorio, se pur vorrai essere in grado di ottenere il medesimo premio.
Ermocrate – Eh! Socrate, vale anche per me l’ammonimento che hai dato a Crizia. Ma è pur vero che, sino ad oggi, nessun uomo che si perde d’animo ha mai innalzato trofeo di vittoria. Cosa ne dici, Crizia ? Bisogna dunque procedere col cuore dei forti, avanti, contro l’argomento; e invocare Apollo Peana e le Muse, e dimostrare le gesta di quei vetusti cittadini, uomini valorosi; e cingerne d’un inno le fronti.
Crizia – Ermocrate, amico mio, il turno tuo è fissato per domani; avanti a te sta un altro; ecco perché hai tanta fiducia. Ma cosa voglia dire quest’impegno, il fatto stesso te lo farà vedere, Conviene in ogni modo dare ascolto alle tue parole d’esortazione e i di incoraggiamento. E oltre agli Dei che tu dicesti, bisogna invocarne altri ancora, e particolarmente Mnemosine, la memoria.
Vedete bene che a questa Dea è affidato il compito più cospicuo, dato l’argomento ch’io debbo trattare. Dovrà infatti richiamare vive al mio ricordo, e trasmetterle a voi, parole che dissero, un lontano giorno, i sacerdoti; parole che in un secondo momento furono portate qui da Solone.
Ebbene, sono certo che, se arriveremo a far questo, il pubblico giudicherà che ho dato giusto adempimento a quanto si -richiedeva da me. Ecco dunque ciò che ormai si deve far senz’altro; e basta con gli indugi.
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Prima di tutto, intanto, dobbiamo tenere presente una cosa assai e importante. Novemila anni or sono, scoppiò una guerra tra i popoli dimoranti al di là delle colonne d’Ercole, e tutti quei popoli che stanno al di qua dei medesimo stretto. Si tratta ora d’esporre completamente gli eventi di tale guerra.
Su questi popoli interni, si diceva che Atene prese il comando; che la nostra città ha condotto la guerra tutta quanta, dal principio alla fine; invece i nemici furono guidati dai re dell’isola Atlantide (quell’isola che dicevamo era un tempo più vasta dell’Asia e della Libia). Inabissatasi per ripetuti cataclismi, viene a costituire oggi bassofondo fangoso, difficile al passaggio per i naviganti, quanti di qui fanno vela verso l’alto mare che di là s’estende, ci si deve arrestare, tanto è forte ostacolo.
La moltitudine dei popoli barbari, le singole stirpi greche che esistevano in quel tempo potranno esser segnalate via via che lo svolgimento dei discorso dovrà nel suo giro incontrare per i singoli luoghi gli argomenti opportuni. Invece è necessario in principio spiegare un pò la preparazione e le condizioni degli Ateniesi di allora e degli avversari coi quali fu condotta la guerra; veder così la potenza delle due parti e le costituzioni civili. È bene intanto occuparsi prima di quelli che qui abitavano e dirne le caratteristiche.
Gli Dei, un giorno remoto, s’erano divisi per sorteggio la terra tutta quanta, regione per regione. E non c’è stata rivalità. Si capisce!, bella cosa sarebbe se gli Dei ignorassero quel che a ciascuno è conveniente; o se, d’altra parte, pur sapendo questo, cercassero d’acquistare per mezzo di contese ciò che piuttosto spetta ad un altro.
Il fatto è invece che, valendosi del sorteggio di Giustizia, ciascuno ottenne ciò che gli era caro e ciascuno prese dimora nella sua terra. Una volta poi che ciascuno aveva preso dimora, educava gli uomini e li faceva crescere quali possessi e quali greggi a sé pertinenti. Esattamente come pastori il proprio gregge.
Unica differenza, non facevano forza sul fisico valendosi di mezzi materiali. Così fanno invece i pastori quando, pascolando il gregge, si valgono di percosse. Invece gli Dei guidavano l’intera costituzione del mortale dal punto per dove si può con maggior facilità guidare il vivente. Dalla poppa dirigevano e quella mano raggiungeva l’anima.
Era persuasione che forniva il governo della nave, secondo disegni dei piloti. Veramente nocchieri e guide, gli Dei di tutta l’umana specie !
E un Dio ebbe in sorte una regione; un altro un’altra; e provvedevano a farle ornate e belle. Efesto invece e Atena avevano comune natura che per di più è anche fraterna, nati come sono dal medesimo padre; d’altra parte. le mete eguali, dato appunto il loro amore di sapienza e il loro amore per le arti: per tutti questi motivi, le due Divinità ebbero in sorte, l’uno e l’altra, unica regione; questa terra appunto, che avrebbero dovuto considerare come propria e naturalmente adatta all’incremento di virtù e di spirituali attività; per la quale prepararono popolazione che sarebbe stata originaria, gente cospicua per bontà. Quindi volsero ogni pensiero a organizzarne le condizioni politiche secondo il proprio giudizio. Di questi popoli prischi si è conservato il nome; le imprese invece, per il fatto che i successori furono annientati, disparvero nell’oblio di secoli lunghi.
Si disse già prima che le stirpi sopravvissute, via via rimanevano in vita oscure sui monti e di lettere ignare.
Queste genti avevano udito soltanto il nome dei principi ch’erano stati nella pianura e, accanto al nome, rade e disperse le gesta. Cosi, in quanto ai nomi, amavano attribuirli ai figli; invece le virtù e le costituzioni di quei popoli antichi tali genti non conoscevano; soltanto qualche notizia e su singole persone; e questa, avvolta d’ombra. Inoltre gravi le necessità in cui gli adulti e la prole vennero a trovarsi nella vicenda di lunghe generazioni; ogni sforzo e ogni attività di pensiero protesi a superare le difficoltà dell’esistenza; ogni discorso rivolto a questo scopo.
Nessuna curiosità quindi per quanto era avvenuto negli anni lontani e nelle prime età. Sorgono infatti sviluppandosi copiose le leggende e sopravviene interesse d’indagine sugli antichi tempi, quando le condizioni di vita si fanno migliori, quando ormai le necessità prime della vita abbiano trovato opportuna organizzazione; non certo prima.
Per questa ragione i nomi degli antichi uomini si sono salvati, a prescindere da ogni impresa.
E tale mia affermazione ha una prova sicura. Solone disse che i sacerdoti esposero le vicende della guerra antica, adoperando, per lo più quei nomi di cui si fa ricordo per le età prima di Téseo; per esempio, il nome di Cécrope, di Erétteo, di Erittónio, di Brisíttone e d’altri; e per i nomi femminili è avvenuto lo stesso.
E disse Solone che anche nei simulacri la figura della Dea era rappresentata allora rivestita dell’armi in quanto comuni erano le attività per uomini e donne nella guerra. In conformità a tale costumanza, la Dea in quel tempo nel suo simulacro c’era effigiata con le armi. Segno evidente codesto che appunto tutti gli animali viventi in società, siano maschi che femmine, hanno doti concesse da natura, tali che gli uni e le altre possano esercitare in comune attività conveniente alle singole specie.
In quei remoti secoli dunque, su questa terra le classi dei cittadini vivevano distinte: quelle che attendevano alle varie arti, quelle che attendevano ai lavori della terra, e la classe guerriera sin dal principio separata dalle altre per opera d’uomini divini. A questa ultima classe si concedevano tutti i mezzi adatti perché la comune esistenza potesse svolgersi e trovasse modo d’opportuna elevazione.
Del resto, nessuno dei guerrieri aveva un privato possesso; ogni cosa, i guerrieri la ritenevano comune a tutti i compagni; così pure non pretendevano che gli altri cittadini dessero nulla, oltre ai comuni mezzi di sussistenza. Insomma la vita da te ieri esposta, tali uomini effettivamente la praticavano, quella appunto di cui parlavi a proposito dei Custodi supponendone l’esistenza.
Veniamo ora a particolari di cui è viva la tradizione; particolari che meritano piena nostra fiducia, corrispondenti come sono al vero. Intanto i confini. Si dice che la regione in quelle antiche età fosse limitata con l’Istmo e dall’altra parte, verso la terra ferma cioè, giungesse sino alle cime dei Citerone e del Parneto.
E questi confini oltrepassavano la montagna e scendevano giù, comprendendo, nella parte destra, Orópia; nella sinistra, invece, in direzione dei mare, restava escluso l’Asopo. In quanto a bontà, superava ogni altra terra; in conseguenza, la regione era in grado allora di mantenere un numeroso esercito, il quale era esente dai lavori campestri. Ed ecco ancora una prova. Quella parte che ai nostri giorni tuttavia rimane, può ben rivaleggiare con qualsiasi altra regione per copiosa produzione di ottimi frutti e per il fatto che offre pascoli eccellenti ad ogni sorta di bestiame, E nei secoli antichissimi, i prodotti, oltre ad essere eccellenti erano anche in copia grande.
Ma per qual modo si può fare con sicurezza questa affermazione ? E per quale motivo la terra di oggi si può dire un resto di quella d’un giorno ?
Nella sua totalità la regione si distende per l’intera sua lunghezza sul mare protendendosi dalla restante massa del continente, quasi ne fosse l’estrema parte. E in realtà, il bacino del mare che le sta intorno è tutto assai profondo nella vicinanza delle coste.
In conseguenza, siccome avvennero innumerevoli e violenti cataclismi in questo periodo di novemila anni (tanti, da quel tempo ad oggi, ne sono appunto trascorsi): il terriccio, attraverso queste vicende di secoli e di eventi, calò giù, discendendo dalle località montane, senza formare terreni con sedimenti di qualche importanza, come avviene in altre località, ininterrottamente trascinato in giù, finisce per scomparire nelle profondità marine. Sono rimaste quindi, in confronto a un giorno, le condizioni attuali: come, nelle isole di poca estensione, ossa che sembrano d’organismo ammalato. E la terra grassa e molle, quanta ce ne era, è stata trasportata in giù; ed è rimasta la struttura, priva di corteccia, della regione.
Ma nelle primitive età, tutto era intatto; la regione aveva, quale sistema orografico, gruppi di colline elevate; e le pianure, chiamate c oggi dalla pietra porosa, erano ricoperte di grasso terriccio. E c’erano molte selve nelle montagne, di cui pur oggi esistono evidenti le tracce. Taluni di questi nostri monti oggi sono appena in grado di dar alimento alle sole api; e non è tempo lungo da quando sono stati tagliati alberi su quei monti per formare con essi travi per il tetto di grandissimi edifici. e questi tetti tuttora permangono.
E c’erano ancora alberi numerosi e alti, adatti alla coltivazione; e la terra offriva pascolo abbondante alle greggi. Inoltre, le acque meteoriche d’anno in anno venivano utilizzate; non come oggi che la d terra le perde, in quanto l’acqua dalla terra ignuda scorre giù fino al mare. Al contrario, la terra ne aveva molta e in sé molta ne accoglieva; e molta ne conservava per mezzo di strati argillosi; donde poi la terra distribuendo l’acqua che aveva assorbito, dava origine a copiosi corsi di fiumi e a sorgenti, dalle alte regioni fino alle pianure più profonde, in tutte le località.
E tuttora esistono tracce di questa ricchezza: i templi presso le sorgenti che sgorgavano un giorno; segni manifesti che quanto si dice ora corrisponde al vero.
Questa la condizione, dunque, per le parti agricole del paese; e inoltre, vivevano colà popolazioni agricole veramente tali e che attendevano all’agricoltura appunto; uomini amanti del bello e dotati d’ogni migliore qualità, possedevano un’ottima terra e abbondanti mezzi d’irrigazione; sulla terra poi, si svolgevano misurate le stagioni e ben temperate. C’era poi il borgo; ecco le condizioni di vita a quei tempi.
Intanto, la zona dell’Acropoli non era allora nelle condizioni di oggi. Un unica notte, con sue immense acque, ha reso la zona totalmente ignuda di terra; tutto intorno ogni cosa è stata quasi diluita. Avvennero in realtà terremoti e un diluvio spaventoso, il terzo, precedente la strage al tempo di Deucalione. Quando questi cataclismi non ancora erano avvenuti, in altro tempo, l’Acropoli arrivava fino all’Erídano e all’Ilisso, e comprendeva in sé la Pnice e, quale confine estremo, il monte Licabetto, dalla parte opposta della Pnice. La zona era ricca di terra, in tutta la sua estensione; e la sommità piana, tranne piccolo tratto. Le parti estreme ricettavano le abitazioni d’artigiani e d’agricoltori che lavoravano i campi vicini. Lo stesso per le sue pendici. Nella parte alta invece aveva preso dimora, separata dagli altri, la classe dei guerrieri, attorno al tempio di Atena e di Efesto.
Il qual settore, circondato da unico muro di cinta, pareva quasi il parco di una sola casa. Questi guerrieri abitavano in dimore comuni la zona dell’Acropolí che volge a settentrione; s’erano costruiti refettori per l’inverno e così pure c’era tutto quanto è adatto e conveniente a una vita in comune, edifici per comune uso e templi. li tutto, a prescindere da oro e da argento, di cui non era ammesso assolutamente l’uso.
Questi guerrieri tendevano a una vita intermedia fra il lusso eccessivo e la gretta povertà. Le loro case erano eleganti; e quivi essi, figli e nipoti pervenivano a vecchiezza e consegnavano. Poi ad altri a sé eguali quelle medesime case in perenne vicenda. C’erano ancora le parti esposte a mezzogiorno; durante l’estate lasciavano i giardini, i ginnasi e i refettori rivolti verso questa plaga troppo calda e utilizzavano con questo criterio gli edifici orientati a settentrione. E unica sorgente c’era sul luogo dove sta ora l’Acropolí. In seguito ai terremoti, questa sorgente si è inaridita e ne rimangono piccole fontane oggi disposte in giro. Allora a quegli uomini la fonte offriva copiose linfe. bene temperata per l’estate e per l’inverno. In questo modo quegli uomini vivevano.
Custodi dei loro concittadini e guide, benevolmente accolte, degli altri greci, cercavano che il numero della popolazione, donne e maschi, fosse mantenuto intatto nel perenne corso dei secoli; un numero capace di far fronte alle necessità di guerra nel presente e nell’avvenire. E questo numero era dì circa ventimila anime press’a poco. Questa gente dunque così viveva; e secondo questi immutabili princìpi governavano la propria terra e l’Ellade tutta, con pieno spirito di giustizia. E alta ne era la fama per tutta l’Europa e nell’Asia; gente prestante per bellezza e per ogni genere di spirituale virtù. La rinomanza ne tra giunta presso tutte le parti di allora, in quanto invece alle condizioni degli avversari, quali erano in quegli anni e quali furono all’inizio dei tempi, cercheremo ora di trasmetterle in modo che divengano comuni anche a voi che siete nostri amici, a meno che la memoria non ci tradisca su queste notizie che abbiamo udito nei lontani giorni della nostra infanzia.
Prima del racconto, in ogni caso, sarà bene preporre una dichiarazione. Potrebbe infatti sorgere in voi un senso di meraviglia udendo più volte nomi greci riferiti a uomini stranieri. Ebbene, ascoltate la causa di tale fatto.
Solone, avendo già concepito il disegno d’adoperare questo racconto per il proprio poema, cercò quindi d’informarsi bene sul valore di questi nomi, e trovò che i preti egizi li avevano scritti, già tradotti nel loro linguaggio.
Quindi, a sua volta, cogliendo il significato di ciascun nome, lo espresse con forme greche e così lo trascrisse.
I manoscritti relativi, erano anzi nelle mani di mio nonno, e tuttora sono in mio possesso; e quando ero fanciullo, ho studiato con essi. In conclusione, nessuna meraviglia se udrete i nomi dei personaggi nello stesso aspetto dei nomi di qui. Ne sapete il motivo.
E il lungo racconto principiava press’a poco così.
Abbiamo accennato poco fa a un sorteggio; che cioè gli Dei si divisero la terra tutta; e di qui c’erano zone maggiori; di lì, invece, minori; e in tutte gli Dei stabilirono a loro vantaggio sacrifici e offerte. In conseguenza Poseidone ebbe in sorte l’isola dell’Atlantide, e in una certa località dell’isola pose a dimorare i propri discendenti che aveva generato da mortale donna. Non lontano dal mare, ma premo il centro dell’isola tutta quanta, c’era poi una pianura; fra tutte le pianure la più amena e la più ricca di prodotti.
Accanto alla pianura, lontana dal centro dell’isola circa cinquanta stadi, una montagna. E su questa montagna, ìn ogni sua parte di scarsa altezza, d abitava un uomo che si chiamava Euénore; e quest’uomo a parte, ne va alla stirpe di quelli ch’erano nati dalla terra nel principio dei tempi. Viveva insieme con la sposa Leucíppe. Questi due sposi generarono una figlia, Cleito, e questa era unica prole.
E quando poi la fanciulla era venuta ormai al tempo di nozze, la madre sua e il babbo vennero a morte.
E Poseidone concepì desiderio di quella fanciulla e si unisce a lei. E c’era una collina dove lei aveva la sua casa; e il Dio rese quella collina un luogo di cinta fortificata, rompendo la terra in scoscesi ostacoli tutto in giro.
A questo scopo ricavò alternativamente, ora grandi, ora piccoli, concentrici spazi, a guisa di ruote; e due ruote erano di terra; tre formate dal mare. Perfetto, come fatto al tornio, ne era il giro, partendo dal centro dell’isola.
E gli intervalli di ciascun spazio, uno dall’altro, erano come iniskira iii ogni parte gli stessi. Così nessun uomo avrebbe potuto penetrare in quella zona. Tanto più che non c’erano ancora a quei tempi né navi né arte di navigazione. Personalmente inoltre il Dio addusse ogni ornamento alla parte centrale dell’isola, e fece tutto questo senza difficoltà, perché era un Dio.
Per esempio, raccolse due acque sorgive che venivano su dalle profondità della terra; e l’una era calda; fredda l’altra derivava dalla fonte a guisa di ruscello. Inoltre fece sì. che la terra producesse ogni frutto e in abbondanza. Il Dio generò cinque generazioni di figli maschi e gemelli; li fece crescere tutti; e l’isola Atlantide tutta quanta divise in dieci zone. E al primo venuto alla luce dei due più vecchi, assegnò la casa della madre e tutta la zona che d’intorno si distendeva; la più vasta e la più ricca. Inoltre lo istituì re degli altri fratelli che fece pure sovrani ma a lui subordinati. E a ciascuno il Dio dette dominio dì popolo molto e vastità di molto territorio. A tutti il Dio impose i nomi.
Al più vecchio, al sommo re, assegnò quel nome con cui risola tutta quanta e il mare furono poi chiamati (Atlantico è questo nome); il primo re che aveva regnato in quel tempo antico, era insomma chiamato Atlante. Al gemello, ma nato dopo di lui, venne invece data in sorte la parte estrema dell’Isola di fronte alle colonne di Eracle, dì fronte a quella regione che si chiama oggi Gadirica, conformemente appunto al nome che distingueva tale sezione dell’isola. Il nome del re veniva ad essere in greco Eumelo; nella lingua del luogo, Gadiro; il qual nome deve aver dato poi appellativo alla regione. In quanto ai due secondi gemelli, l’uno Anfere, l’altro chiamò Euemonc; in quanto al terzo gruppo, Mnéseo era quello nato prima; quello dopo, Autóctono. Nel quarto gruppo di gemelli, Elasippo il primo; Méstore, il secondo; nel quinto gruppo fu posto nome Azae e Diáprepe rispettivamente a quello nato prima e a quello nato dopo. Tutti questi re, personalmente e i loro discendenti, vissero colà per molte generazioni, ed ebbero il dominio di molte altre isole lungo il mare.
Per di più poi, come già fu detto precedentemente, avevano anche dominio dei popoli che stavano nella parte interna delle colonne d’Ercole, fino all’Egitto e alla Tirrenia. Per tal modo, dunque, nasce da Atlante discendenza numerosa e ricca d’onore; e il re più vecchio trasmetteva il dominio sempre al più vecchio dei discendenti; quindi, per generazioni molte, il regno si mantenne intatto.
E quei re giunsero a tal grado di ricchezza, quale sino ad allora non c’era mai stata in nessuna monarchia; e nemmeno nell’avvenire simile ricchezza potrà facilmente formarsi. Erano raccolti a disposizione di questi sovrani tutti i prodotti che la capitale e il resto del territorio potevano fornire. Certo molti prodotti pervenivano da regioni lontane, dati i diritti di supremazia; ma l’isola per se stessa già offriva moltissimi prodotti per i vari bisogni della vita. In primo luogo, intanto, i prodotti delle miniere, metalli duri come pure metalli malleabili; inoltre quello di cui ora sussiste soltanto il nome (ma allora, oltre al nome, c’era il metallo stesso): L’oricalco, di cui c’erano miniere in molte località dell’isola; a prescindere dall’oro, il più prezioso dei metalli usati in quei tempi. Inoltre risola portava con grande abbondanza ogni materiale che le selve producono utile al lavoro dei carpentieri; ancora ricche pasture agli animali selvatici e domestici.
Per esempio, il numero degli elefanti era copiosissimo; ma c’era pascolo anche per gli altri animali sulle paludi sui laghi sui fiumi, e per quanti pascolano sui monti e nei piani: ebbene, per tutti cibo in abbondanza, non escluso nemmeno l’elefante, grandissimo e particolarmente vorace.
Ma inoltre quella terra portava e faceva crescere assai bene ogni pianta aromatica che anche oggi è prodotta dal nostro suolo: radici, fronde, legni e resine stillanti, vuoi dai fiori, vuoi dai frutti. E ancora ogni frutto della terra ottenuto per coltivazione, come pure quello che viene seccato al sole, base del nostro nutrimento; e anche quei frutti che adoperiamo per cibo il cui nome, dato a tutte le varietà, è ” legumi “. Inoltre quel frutto di legnoso aspetto che fornisce pozioni cibi e profumi; quel frutto capace di farci divertire e di darci gioia; frutto difficile a conservare di alberi fruttiferi. E ancora quei prodotti della terra che si possono offrire graditi ai sofferenti dopo il pranzo, conforto allo stomaco pesante. risola d’allora, baciata un giorno dal sole, portava tutti questi frutti; vigorosi, stupendi, superbi e in quantità inesauribile. Usufruendo di tali ricchezze gli Atlantidi costruirono templi, palazzi per i sovrani, porti, arsenali; e l’intera regione tutta quanta organizzarono nel seguente modo.
Sulle zone circolari, a forma di ruota, occupate dal mare (circondavano l’antica capitale) costruirono ponti, e apersero così un cammino verso le zone esterne e verso i palazzi reali che fin dai primi anni furono edificati nel luogo dimora del Dio e degli antenati. Ciascun sovrano riceveva il palazzo dal suo predecessore e aggiungeva nuovi ornamenti a quelli che già vi erano; ognuno cercava così di superare, per quanto poteva, la magnificenza del predecessore. In tal modo rendevano il palazzo oggetto di stupore per chi ne vedeva l’immensità e ne osservava la bellezza delle opere. Per esempio, scavarono, cominciando dal mare, un canale; e questo largo tre pletri; profondo cento piedi; lungo cinquanta stadi; e lo condussero fino alla più esterna zona circolare a forma di ruota.
Dettero quindi modo alle navi di navigare in su come in un porto, dal mare verso l’interno. E l’imboccatura di questo canale aperta in modo che le navi più grosse vi potessero entrare. C’erano inoltre le altre zone a ruota; formate di terra, separavano le altre, contenenti invece acqua. Ebbene, nelle località ove erano i ponti, costruirono, attraverso a tali zone di terra, passaggi sufficienti per una sola trireme, in modo che la nave varcasse da una zona all’altra; anzi coprirono il passaggio al di sopra con un tetto, in guisa che la navigazione potesse svolgersi sotto una copertura. In realtà, gli argini delle zone circolari, costituite da terra, avevano sufficiente altezza innalzandosi al disopra del livello marino.
La zona circolare più grande, verso la quale era stato fatto penetrare il mare, aveva larghezza di tre stadi; e quella adiacente, formata di terra, era larga come la prima. C’erano poi le due successive; e quella contenente acqua era larga due stadi; quella secca era eguale alla precedente in cui c’era l’acqua. Invece la zona cingente intorno l’isola che stava al centro era larga uno stadio.
E l’isola, nella quale era il palazzo reale, aveva un diametro di cinque stadi; i re d’ogni parte la cinsero con una muraglia di pietra (così pure le altre zone a ruota) e da una parte e dall’altra il ponte che aveva la larghezza d’un pletro. Posero quindi torri e porte sopra i vari ponti da ogni parte lungo le imboccature per cui passava il mare. La pietra necessaria ricavavano dall’isola centrale nelle parti estreme, e così pure dalle altre zone interne ed esterne. E parte di questa pietra era bianca; parte nera; parte rossa.
Approfittando poi delle zone fatte vuote pel taglio della pietra, quei re costruirono bacini di riparo per le navi, profondi duplici, nella parte più interna dell’isola; e la roccia stessa serviva di tetto. In quanto poi agli edifici, alcuni erano semplici; altri invece li costruirono come un lavoro di tessitura, mischiando cioè le pietre; in modo che risultassero variopinti, e costituissero oggetto di visione simpatico e gradito. In quanto poi alla circonferenza del muro che cingeva la zona più esterna, la cinsero tutta di rame, e si servirono del metallo come fosse la tinta del muro stesso. Invece, per il muro interno, si valse di stagno fuso; in quanto poi al muro proprio intorno all’acropoli, adoperarono oricalco con ignei bagliori.
E ora veniamo agli edifici regali che stavano dentro l’acropoli, disposti nel seguente modo. Nella parte centrale, un recinto consacrato a Cleito e a Poseidone; era riservato, e non vi si poteva entrare; lo cingeva tutto quanto un muro d’oro. Questo il luogo nel quale, alle origini dei tempi, Poseidone e Cleito avevano concepita e generata la stirpe dei dieci re. Quivi, ogni anno, a ciascuno dì quei re si compivano sacrifici con le primizie della stagione per conto di tutti i dieci regni. E c’era un tempio particolare per Poseidone; lungo uno stadio, largo pletri tre; l’altezza proporzionale a queste misure. L’aspetto aveva un non so che di barbaro.
All’esterno tutto il tempio era rivestito d’argento; unica eccezione, il fastigio, il quale era d’oro. L’interno invece presentava alla vista il soffitto d’avorio, ornato tutto d’oro, d’argento e d’oricalco. Le altre parti, pareti colonne e pavimenti, interamente rivestite di oricalco.
E ci stavano statue d’oro; il Dio stante in un cocchio, auriga di sei destrieri alati; la sua persona così alta da toccare il tetto con l’estremità del capo.
Ci stavano ancora cento Nereidi su delfini tutte in giro; cento, perché in quei tempi tale se ne reputava il numerò. Inoltre, nell’interno del tempio, altre statue in gran numero, offerte da privati. Intorno al tempio, all’esterno, effigiate in oro, le immagini delle regali consorti e di quanti erano discendenti dai dieci re; così pure una grande quantità d’altri simulacri cospicui per dimensioni, sia di sovrani come pure di cittadini privati, tanto della città stessa, quanto di paesi stranieri sottoposti agli Atlantidi. In quanto all’altare, era in piena corrispondenza, per dimensioni e per prezioso lavoro, con lo splendore dell’ambiente; la reggia poi in armonia con la grandezza di quell’impero e del tutto proporzionata alla ricchezza del sacro recinto. C’erano poi le fontane. Una, d’acqua fredda; l’altra, d’acqua calda.
E versavano l’acqua in grande abbondanza, ottima e piena d’ogni virtù; quindi tanto l’acqua fredda che la calda erano particolarmente utili. Usavano queste fontane in quanto avevano posto tutto intorno edifici e piantagioni di alberi, adatti a località umide. C’erano poi cisterne; e le une erano a cielo scoperto; altre, invece, per la cattiva stagione, avevano il tetto e servivano ad uso di bagni caldi.
Erano separate le cisterne ad uso del re da quelle dei privati; e poi ce n’erano particolari per le donne, e particolari per cavalli e per altri giumenti.
A ciascun tipo attribuivano adatta decorazione. L’acqua che derivava dalle fontane, veniva condotta verso il sacro bosco di Poseidone ove crescevano alberi d’ogni genere, stupendi, alti in modo miracoloso; tanto grande, il vigore dei terreno. Queste acque, ancora, con l’aiuto dei ponti, erano portate, per mezzo d’acquedotti, fino alle estreme zone circolari. In tali zone estreme erano stati disposti molti templi dedicati a un gran numero di Divinità; parchi molti e molti ginnasi. E taluni per scuola di fanciulli, altri per equitazione.- ciascuno nelle singole isole che le varie zone circolari fatte a guisa di ruota venivano a costituire.
C’erano altri edifici, ma in particolare nel centro dell’isola più grande, uno speciale ippodromo largo uno stadio; la lunghezza invece, calcolando l’intero giro, era adatta alle corse di gara per i cavalli. Attorno, ad d intervalli regolari, alcune caserme per le comuni guardie dei corpo; invece, per gli elementi più fidi, era stato disposto il luogo di guardia nella più piccola zona circolare, assai vicina all’acropoli. C’erano poi i soldati legati anima e corpo al principe; e questi erano dentro l’acropoli; le loro case, tutte intorno al palazzo reale. Gli arsenali inoltre pieni di trircini; e tutti gli oggetti necessari all’armamento d’una Botta. Tutto disposto in perfetto ordine. Questa dunque la disposizione degli edifici attorno al palazzo del re. Ma chi avesse attraversato ì porti esterni in numero di tre, trovava un muro circolare che andava cominciando dal mare, e che distava in ogni parte stadi cinquanta dalla zona più grande e dal porto.
Questo muro rinserrava in un unico settore l’ingresso del canale con l’ingresso proveniente dal mare. Questo muro, nella sua intera estensione, dava ricetto a molte case assai fitte. In quanto poi al canale d’ingresso e al porto più grande, era rigurgitante dì navi e di mercanti provenienti da tutte le parti. E quest’assembramento produceva suono di voci, rumori d’ogni genere, tumulto, di giorno e di notte.
Ho finito di trattare della capitale e dell’antica dimora riservata ai sovrani press’a poco com’era stato riferito un tempo a Solone.
Si tratta ora di descrivere la condizione naturale del restante paese e le caratteristiche della sua organizzazione. Intanto, é fama che il paese tutto fosse molto elevato e scosceso sul mare; invece la regione intorno alla capitale era tutta piana; cingeva la città, e a sua volta era circondata in giro da monti che giungevano fino al mare; pianura levigata e tutta eguale. Oblunga nell’insieme la forma; da una parte, estesa per tremila stadi; nella parte centrale, elevata e lontana dal mare, per duemila stadi.
La pianura, in tutta l’isola, era orientata verso il Sud; quindi riparata a tramontana dai venti settentrionali, In quanto alle montagne che la cingevano, la moltitudine, l’immensità e la bellezza ne venivano celebrate in confronto a tutte le montagne che ci sono ora.
Su quelle montagne villaggi in grati numero, ricchi di abitanti; e fiumi e laghi e prati, sufficienti per fornire alimento ad ogni genere d’animali, domestici o selvatici. E boschi per ogni genere di alberi e in quantità immensa; il legno conveniente a tutti i lavori, abbondante ad ogni particolare uso. Questa pianura, dunque, per opera della natura, come anche per le cure di molti re in secoli molti, presentava le seguenti caratteristiche. Il territorio, nella sua parte principale, veniva ad essere un quadrilatero: angoli retti, forma allungata. Dove la forma faceva difetto s’era provveduto alla regolarità per mezzo d’un canale che cingeva la piana tutta quanta.
La profondità, la larghezza e la lunghezza di questa fossa sembrerebbero incredibili, trattandosi d’un lavoro fatto da mani dall’uomo; tanto più se lo si confronta, nella sua imponenza, agli altri lavori di questo genere. In ogni modo, bisogna pur dire quello che abbiamo udito. La fossa era profonda un pletro; larga d’ogni parte uno stadio; siccome poi d era stata scavata intorno alla piana tutta quanta, la lunghezza dell’intera fossa risultava di diecimila stadi. Raccoglieva le acque che discendevano dalla montagna, faceva il giro tutt’intorno alla pianura, giungeva di qua e di là verso la città e da questa parte veniva lasciata defluire verso il mare.
A monte di questo canale, canali minori, larghi circa cento piedi, tutti in linea retta; incisi lungo la pianura, erano rivolti verso il canale maggiore derivante verso il mare. Ciascuna di queste fosse minori distava cento stadi l’una dall’altra. Nelle località per dove si conduceva giù il legname dai monti verso e la capitale, e per dove si ricevevano, per mezzo di barche, gli altri prodotti di stagione, erano stati tagliati canali navigabili di raccordo con gli altri canali, in direzione obliqua l’uno con l’altro, e rivolti verso la capitale.
Del resto due volte all’anno quegli uomini godevano il raccolto della terra: d’inverno, in quanto usufruivano delle acque meteoriche; d’estate invece adoperavano le acque offerte dalla terra, derivando le linfe dai canali d’irrigazione. In quanto al numero degli abitanti, viventi nella pianura, in rapporto alle necessità belliche, si erano regolate le cose in modo che ciascun settore potesse fornire un capitano. L’estensione d’ogni singolo distretto era dieci volte dieci stadi, in tutto sessantamila distretti.
Si diceva che il numero degli abitanti della montagna e della restante regione fosse enorme; distribuiti per gruppi di località e di villaggi, si raccoglievano tutti nei detti settori di leva, sotto gli ordini dei vari capitani. Era disposto che ogni capitano fornisse per scopi bellici il sesto d’un carro da guerra, fino al numero di diecimila carri; così pure, due cavalli e relativi cavalieri; inoltre, una coppia di cavalli, a prescindere da quelli del cocchio, e insieme un soldato, addestrato per combattere a piedi, armato di piccolo scudo; come pure l’auriga dei due cavalli e un combattente fermo sul carro stesso, Inoltre, due opliti, arcieri e frombolieri due per ciascuno; ciascun capitano, ancora, tre soldati armati alla leggera, abili a scagliare pietre e armati di giavellotti; poi quattro marinai, fino a completare la ciurma di mille duecento navi. L’organizzazione bellica dunque per la città, ove avevano sede i re, era questa; per le altre nove provincie, vi erano altri criteri che sarebbe lungo perseguire.
Segue ora l’ordinamento delle gerarchie e delle cariche pubbliche, disposto fin dalle prime origini.
Ciascuno dei dieci re aveva nel suo settore e nella sua città completo dominio sulle persone; il potere legislativo quasi completamente nelle proprie mani. li re poteva punire e mettere a morte chiunque volesse. In quanto invece ai reciproci rapporti e alla coordinazione del governo, vigevano i decreti di Poseidone, conforme alla tradizione tramandata per iscritto in colonna d’oricalco per cura dei primi re. Questa colonna si trovava al centro dell’isola nel tempio di Poseidone. Ivi alternativamente ogni cinque e ogni sei anni, i re si radunavano rispettando così l’alterno ciclo dei pari e del dispari. In tale assemblea decidevano sui comuni interessi; facevano indagini per stabilire se qualcuno avesse violato la legge e prendevano opportuni provvedimenti giudiziari.
Ogni volta che dovevano pronunciare una sentenza del genere l’uno con l’altro si scambiavano segni di fede nel modo che ora dirò. C’erano liberi al pascolo alcuni tori nel santuario di Poseidone; i dieci re dunque restavano soli, innalzavano preghiere al Dio pere ché concedesse di catturare quella vittima che più gli fosse gradita.
Allora i re si volgevano alla caccia. Non avevano armi di ferro; di legno e soltanto reti. Quindi trascinavano di fronte alla colonna quel toro che fossero arrivati a prendere; e sulla sommità lo sgozzavano, fedeli alle scritture. Nella colonna, infatti, oltre alle leggi, era una formula d’imprecazione che sanciva tremende maledizioni a chi non obbedisse alle leggi stesse. In conseguenza, quando, ossequenti alle leggi, avevano sacrificato il toro e tutte le parti dell’animale erano state purificate, i dieci re, ciascuno per proprio conto, riempivano un cratere e vi gettavano dentro grumi di sangue coagulato. Il resto gettavano nel fuoco, dopo aver fatto purificazioni sulla colonna.
In un momento successivo, attingevano con fiale d’oro dal cratere, versavano ogni cosa nel fuoco e pronunciavano giuramento di giudicare secondo lo spirito delle leggi scritte nella colonna, pronti a punire chiunque nel passato le avesse violate; così pure, reciprocamente, nel futuro, nulla, per quanto stava nel loro volere, avrebbero violato di quelle scritture; a questo solo patto o avrebbero esercitato il dominio o avrebbero obbedito ad b eventuale comando. conformità allo spirito di paterne leggi. Dopo queste imprecazioni, fatte da ciascuno per sé e per la propria discendenza, bevevano il sangue e riponevano la coppa nel santuario del Dio.
Ciò fatto, attendevano a rifocillarsi e ad altre operazioni. Veniva intanto la tenebra e il fuoco che aveva servito ai sacrifici età ormai freddo. Allora tutti indossavano magnifica veste, color indaco cupo, e sedevano per terra, sui resti del fuoco che aveva servito al giuramento. A notte fatta, spegnevano ogni fuoco nei pressi del tempio.
E venivano giudicati e giudicavano nel caso che uno accusasse un altro di qualche illegalità. Una volta pronunciata la sentenza, la scrivevano, appena ci fosse Ilice, in una tavola d’oro e l’offrivano a ricordo insieme alle vesti.
C’erano molte disposizioni di legge in rapporto alle attribuzioni dei singoli sovrani. Le più importanti: non portare le armi l’uno contro l’altro; prestarsi tutti assiduo aiuto, nel caso che fra loro Stessi qualcuno facesse prova di destituire in qualche città un collega di stirpe sovrana; decidere in comune sui piani di guerra come già i predecessori e cosi pure sugli altri eventi; concedere sempre l’egemonia alla stirpe di Atlante.
Il re non aveva facoltà di dare morte a nessun personaggio di famiglia regale, qualora non fossero consenzienti la metà dei dieci re. Iddio dunque raccolse e rivolse contro le nostre terre questa potenza così grande e così organizzata, esistente allora in quelle regioni. Eccone pressa poco, com’è fama, la ragione. Per molte generazioni, fino al giorno in cui ebbe potere fra e quei dinasti la natura del Dio, rimasero fedeli alle leggi in armonia spirituale con la Divinità di cui erano affini.
I disegni che quelle menti venivano formulando, tutti erano conformi a verità, sotto ogni aspetto generosi e grandi.
Con mite cuore, secondo prospettive spirituali, risolvevano i problemi che via via si presentavano, tanto negli interessi politici quanto nei reciproci rapporti. Per conseguenza, ogni cosa avevano in disprezzo; unica eccezione, la virtù; portavano, quasi fosse un peso ma senza difficoltà, quel cumulo d’oro e quelle ricchezze immani.
Anzi, dovizia non faceva ebbri i cuori; non li faceva molli l’abbondanza in cui vivevano; in causa del denaro di cui erano in possesso, non perdevano il dominio di sé e non cadevano in errori. Con lucida visione nel profondo dei cuore temperato in armonia, comprendevano che tutti questi possessi s’accrescono nella mutua amicizia aiutata da virtù; si dissolvono invece quando l’uomo attribuisce troppo valore e con troppa ansia li perseguiva allora non solo ricchezza, insieme con quella anche virtù siffatte a rovina. Nutrendo in sé questa convinzione e mantenendo intatta la divina scintilla della propria natura, questi dinasti videro che ogni cosa di cui prima si fece cenno per incremento fioriva.
Quando invece la parte di Dio diveniva irrita, commista, più volte, a mortale innumere elemento; quando costume mortale arrivava a imporre fra questi dinasti il proprio dominio: allora finalmente non furono più in grado di sopportare l’attuale fortuna; allora volsero a indegna condotta. In questo momento, chi li avesse osservati e fosse stato capace di visione profonda, avrebbe avuto una sola impressione: quegli uomini erano deformi.
Avevano perduto il tesoro più prezioso fra quanti ne possedevano. Certo, chi non è in grado di scorgere vita vera, rivolta a felicità, avrebbe giudicato che proprio in quel momento fossero straordinariamente belli e felici. E invece uomini tutti pieni d’ingiusta imperialistica avidità e di prepotenza.
Il Dio degli Dei, Zeus, colui che, secondo leggi, quale re governa, poteva certo osservare queste condizioni, e s’accorse che stirpe fornita di eccellenti qualità si trovava in sciagurata condizione. Decise allora d’imporre giusta pena, allo scopo d’indurre in quelli senso di resipiscenza e di misura. Raccolse allora gli Dei tutti nella loro dimora stupenda, posta al centro di tutto il cosmo e che consente dì guardare da posizione dominante su tutto ciò che partecipa al divenire. Li raccolse dunque e prese la parola …
Tratto da: xoomer.alice.it