Il RISO (cereale) fa buon sangue ….e non vale solo per il ridere…
“Che il Cibo sia la Tua medicina, e che la Medicina sia il Tuo cibo…” (Ippocrate di Kos)
Il pasto della giovinezza per tutti
Trovate nanoparticelle di metalli tossici nelle farine utilizzate anche per la panificazione ed ora (2022) stanno anche insere3ndo farine di insetti ….
Il RISO, CIBO UNIVERSALE
vedi: Semi Antichi salvezza della salubrità dei cibi vegetali
In Medicina Naturale suggeriamo a TUTTI di alimentarsi seguendo le regole del Crudismo e di rimanere quasi totalmente vegetariani, con predominanza del cereale RISO, infatti vi è un detto antico che dice: …il riso fa buon sangue e non si riferisce solo al ridere….Infatti il RISO è il cereale più consumato nel mondo.
vedi: http://www.varietarisoitaliano.com/ + http://www.enterisi.it/index.jsp
Alimento base di circa 1/3 della popolazione terrestre. Il riso è il nome di circa 19 specie di piante erbacee annuali, della famiglia delle graminacee, ma solo la Oryza sativa è importante per l’alimentazione umana.
L’Oryza sativa è una pianta originaria delle regioni dell’Asia sudorientale si dice coltivata in modo intensivo da più di 7000 anni, come dimostrano alcuni reperti databili intorno al 5000 a.C., ritrovati nella Cina orientale e ad altri reperti risalenti a 6000 prima dell’era volgare, ritrovati in una caverna della Thailandia settentrionale.
Un consiglio: meglio usare roso rosso o nero che quello bianco, ma tutti integrali e biologici.
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Le origini del riso in Asia e la sua diffusione nel Mediterraneo e in Italia
Origine e Domesticazione
Il riso asiatico (Oryza sativa) è originario di una vasta regione che si estendeva dall’India orientale fino alla Cina meridionale nella quale, agli inizi dell’Olocene, crescevano i suoi progenitori selvatici. In quei territori, compresi nella fascia tropicale e sub-tropicale delle piogge monsoniche, il riso sviluppò una sorprendente variabilità che gli consentì di colonizzare i più diversi ecosistemi.
Il riso selvatico è ancora oggi presente in molte aree della pianura del Gange in India, nelle regioni settentrionali di Burma, Thailandia e Vietnam e in quelle continentali e insulari dell’Asia sud-orientale.
Il processo di domesticazione ebbe luogo all’interno del centro di origine della pianta ad opera di comunità di proto-agricoltori i quali, dopo una prima fase di semplice raccolta dei semi, avviarono la coltivazione dei campi naturali di riso selvatico e, solo successivamente, cominciarono a seminarlo. La coltivazione del riso selvatico sfruttava la capacità delle giovani piante di resistere al trapianto da un campo all’altro. Questo carattere può essersi sviluppato precocemente solo nelle regioni dove, a seguito di forti alluvioni, i campi di riso selvatico venivano periodicamente inondati da masse d’acqua abbastanza veloci che erano in grado di strappare le giovani piante di riso dal loro ambiente originario, per depositarle più a valle, in campi melmosi, al defluire delle acque.
L’osservazione di questo fenomeno può aver stimolato alcuni gruppi di proto-agricoltori a sfruttarlo a proprio beneficio per ottenere campi di riso selvatico in aree più accessibili o in terreni più vicini ai villaggi. Questo evento potrebbe essersi sviluppato indipendentemente e, forse, anche contemporaneamente in più luoghi della stessa regione, per soddisfare le necessità alimentari dei diversi gruppi umani. Le scelte operate dai primi agricoltori, che videro nel riso selvatico una possibile fonte alimentare, cambiarono il destino di molte popolazioni, favorendo la crescita sociale e culturale di quei gruppi che sul riso fondarono la loro economia.
Coltivazione e vie di diffusione
La geografia dell’origine e diffusione del riso ha trovato precise conferme cronologiche negli scavi archeologici condotti nei villaggi preistorici e protostorici di molte regioni dell’Asia. Nel corso degli ultimi anni, gli archeologi hanno dedicato particolare attenzione al recupero dei semi carbonizzati e alla ricerca d’impronte di vegetali nella ceramica, nei mattoni o negli strati compatti di argilla che formavano il pavimento delle abitazioni, nel tentativo di localizzare il possibile centro di domesticazione della pianta e le vie di diffusione della sua coltivazione. In alcuni casi, per individuare le tracce della presenza del riso nei depositi archeologici, sono stati esaminati campioni di terreno archeologico o di cenere dei focolari alla ricerca di piccolissime particelle di silice praticamente indistruttibili, dette fitoliti, che nella pianta di riso svolgono compiti di particolare importanza.
Lo studio dei reperti vegetali, semi, impronte e fitoliti, ha permesso di accertare se i reperti rinvenuti erano di riso selvatico o di riso domestico e, in alcuni casi, è stato anche possibile stabilire a quale delle tre sottospecie essi appartenevano.
È stato così possibile stabilire che già 15.000 anni fa il riso selvatico costituiva una importante fonte di cibo per le popolazioni preistoriche di alcune regioni della Thailandia, del Vietnam, della Corea, della Cina e di alcune isole del sud-est asiatico. Sappiamo inoltre che i più antichi resti di riso coltivato sono stati trovati nella Cina orientale e nell’India nord-orientale e risalgono a oltre 7.000 anni fa. Le prime testimonianze della coltivazione del riso in campi non sommersi dalle acque, nè irrigati, ma la cui umidità dipendeva solo dalle piogge, sono state trovate nella Cina settentrionale e sono state datate a circa 5.000 anni fa.
Dalla documentazione archeologica sappiamo inoltre che, tra il quarto e il terzo millennio a.C., la coltivazione del riso ebbe una rapida espansione verso le regioni sud-orientali dell’Asia continentale e verso ovest, attraverso l’India e il Pakistan, fino a raggiungere le alte valli del fiume Indo. La discesa lungo l’Indo, per raggiungere l’attuale regione del Baluchistan, avvenne circa mille anni più tardi e fu probabilmente questa l’ultima migrazione in ordine di tempo del riso verso occidente.
Ci vorranno altri mille anni prima che il riso venga conosciuto nel mondo classico ed altri mille anni ancora per arrivare alla sua coltivazione nel Bacino del Mediterraneo, dove fu introdotto dagli Arabi.
La conoscenza e la coltivazione del riso nel Mediterraneo e in Italia
Il mondo classico mediterraneo conobbe il riso orientale solo dopo la conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno.
Teofrasto, contemporaneo di Alessandro, fu il primo a descrivere il riso nel suo trattato sulla storia delle piante. Ne parlò come di un cereale che cresceva in acqua per lungo tempo e i cui semi erano particolarmente idonei ad essere bolliti per soddisfare le esigenze alimentari dei popoli dell’Asia.
Ancora più dettagliata è la descrizione lasciataci da Aristobolo, compagno di Alessandro nelle spedizioni in Asia, secondo il quale il riso veniva coltivato in aiuole chiuse e ben irrigate; era un pianta alta quattro piedi, abbondante di spighe e ricca di semi.
Secondo Aristobolo il riso si coltivava nella Battriana (Afghanistan) e nelle terre del basso corso del Tigri e dell’Eufrate dove, evidentemente, era arrivato prima del passaggio dell’esercito di Alessandro.
Il riso, quindi, prima del quarto secolo avanti Cristo aveva già raggiunto il Vicino Oriente, ma non si era diffuso nelle regioni limitrofe.
Dalle descrizioni riportate nel Periplo del Mare Eritreo, un resoconto della geografia portuale databile al primo secolo d.C., sappiamo che il grano e il riso erano prodotti che venivano scambiati lungo le rotte del Golfo Persico e del Mar Rosso: provenivano dalle regioni dell’Ariacia (Afghanistan meridionale) e di Barigozzo (Barygaza, porto della costa occidentale dell’India) ed erano destinati agli empori della Penisola Araba.
La conoscenza del riso nel mondo romano non fu quella di un cereale adatto all’alimentazione umana ma piuttosto quella di un prodotto medicamentoso che, sotto forma di decotto, veniva prescritto dai medici ai pazienti più ricchi per curare le malattie del corpo, come ricordato da Orazio.
L’Egitto fu la prima tappa del percorso che portò il riso a diffondersi nel Mediterraneo. Si deve alla colonizzazione araba il trasferimento della coltivazione del riso dall’Egitto alla Spagna, probabilmente poco dopo il 1000 d.C.
La conquista araba delle terre del Mediterraneo occidentale favorì la diffusione della coltivazione del riso sia per soddisfare le esigenze degli stessi arabi, sia perchè il riso cominciava ad entrare nelle abitudini alimentari dei popoli conquistati.
Il riso era conosciuto in Italia molto prima che ne iniziasse la coltivazione, perchè era considerato una spezia ed era venduto per scopi terapeutici. Qualche traccia della presenza del riso in Italia si trova già in documenti del 1390, però non è chiaro a chi si deve l’introduzione di questo cereale nella penisola. Nel 1468 fu inaugurata la prima risaia, mentre il primo documento che dimostra la coltivazione del riso in Italia risale al 1475 ed è una lettera di Galeazzo Maria Sforza, il quale prometteva di inviare dodici sacchi di riso al Duca di Ferrara. Con l’avvio della coltivazione in Lombardia il riso, da prodotto di uso esclusivo degli speziali, divenne un elemento dell’alimentazione dei Lombardi.
Dalla Lombardia la coltivazione del riso si estese con rapidità a tutte le zone paludose della Pianura Padana.
A tale diffusione seguì però un aumento dei casi di malaria e furono molti i provvedimenti che cercarono di limitarne la coltivazione in prossimità degli abitati. Nonostante i divieti, la coltivazione del riso continuò ad espandersi perchè la sua resa e il conseguente guadagno, rispetto ai cereali tradizionali erano così alti da far prevalere il fattore economico sul rischio di malattie. Il riso ebbe dunque una immediata diffusione, malgrado i rischi che derivavano dalla sua coltivazione, i dazi e i divieti, e, probabilmente, il suo successo si deve anche alla crisi alimentare che si registrò in tutto il Mediterraneo occidentale nel XVI secolo. Le carestie si alternavano alla peste, i raccolti scarseggiavano e non era facile approvvigionarsi all’estero. In queste condizioni il riso fu visto come il cereale che poteva in qualche modo far fronte alle richieste di una popolazione sull’orlo della fame.
Dalla Pianura Padana la coltivazione del riso si diffuse anche in Emilia e in Toscana, dove però la penetrazione fu più lenta a causa della minore disponibilità di acqua da destinare al nuovo cereale. Alla fine del XVII secolo il riso si coltivava ormai largamente nella pianura del Po, in Toscana ed in qualche area della Calabria e della Sicilia.
Nel 1700 le risaie del territorio milanese coprivano una superficie di oltre 20.000 ettari, mentre un secolo e mezzo dopo le sole risaie del vercellese raggiungevano i 30.000 ettari.
By Lorenzo Costantini, Loredana Costantini Biasimi – Museo d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, Roma
Tratto da: beniculturali.it
La storia del riso
è opera difficile tracciare le origini del riso. Le prime varietà, si suppone, furono trovate nell’Himalaya, oltre 12.000 anni fa; ma diverse sono anche le specie trovate nell’Asia Orientale, dove è possibile trovarlo ancora oggi
Le prime notizie sul riso, scritte nel VI° Secolo A.C. lo definiscono con una forma simile a quello della spelta, ovvero uno stelo sottile e lungo.
Diversi luoghi storici furono anche terra di riso, come la pianura che circonda il Tigri e l’Eufrate o anche del Nilo che straripando lasciava l’humus sulla terra, fertilizzandola.
Così come possiamo ritrovare in Egitto da diversi secoli le prime coltivazioni naturali di riso, difficile è credere che in Italia, oggi principale produttore, nei tempi antichi non era ancora a conoscenza del riso.
L’insolito è che pur non conoscendolo, gli scrittori italiani ne parlassero, come Orazio che ne parlò come valido decotto.
Le fonti raccontano che gli italiani vennero a conoscenza del riso dopo che la Spagna divenne provincia romana, poiché in Spagna il cereale era giunto prima, come fonte di scambio tra alcuni paesi, tra cui l’Egitto.
Oggi il Giappone è uno dei principali consumatori, ma non sempre fu cosi. Per molti secoli il riso era il cibo dei guerrieri e dei mercanti. Solo alla fine del novecento fu concesso a tutta la popolazione.
I greci scoprirono il riso nel periodo dell’invasione dell’India di Alessandro Magno. E gli arabi hanno contribuito nella diffusione del riso in Egitto, quindi Marocco, e nello stretto di Gibilterra.
Per trovare la prima risaia di moderna concezione dobbiamo fare un passo indietro alla metà del 1400, dove in Lombardia troviamo documenti che attestano opere di adduzione di acque per le grandi risaie.
Il territorio paludoso ha favorito l’estensione delle coltivazioni, che fino alla prima metà del 1800 riguardavano principalmente il “nostrale”. Successivamente arrivarono delle varietà di riso asiatico che contribuirono a gettare le basi della moderna risicoltura.
Dalla Lombardia la coltura del riso si espanse anche nel Piemonte, in modo particolare a Novara e Vercelli, pur instaurando a Mortara uno dei centri più moderni per il riso.
Nel passato la risicoltura è stata messa sotto accusa quale fonte di inquinamento dell’aria e del propagarsi della malaria. e ancora oggi i Piani Regolatori delle città dove si trovano le risai stabiliscono le “zone di rispetto” per limitare ampia diffusione delle zanzare.
Tratto da: buonissimo.org
Le origini del Riso – a cura del CNR
Nessuno è ancora riuscito a stabilire quale sia l’origine del riso.
Secondo alcuni studiosi potrebbe essere comparso per la prima volta più di 1200 anni or sono sulle pendici dell’Himalya. Il riso comprende circa diciannove specie di piante della famiglia delle graminacee, ma delle tante varietà esistenti solo l’”Oryza Sativa” – apparsa per la prima volta circa cinque o seimila anni fa in Cina o in Tailandia – è quella importante per l’alimentazione umana. Sicuramente è il cereale più consumato al mondo e si coltiva oltre che nei Paesi dell’Asia orientale, anche in Egitto, Italia, Stati Uniti e Brasile.
Con il riso si possono creare piatti gustosissimi come risotti, arancini e budini di riso, in grado di soddisfare anche i palati più esigenti. Quando si cucina è però importante tener conto della varietà di riso più adatta al piatto in questione. Varietà che in questo caso riguarda esclusivamente la dimensione dei chicchi e i tempi di cottura.
Ma il riso non è materia solo di cuochi e buongustai, molti scienziati si sono infatti concentrati sullo studio di questo tipo di cereale che, tra le graminacee, è quello che ha il genoma più piccolo.
Domenico Pignone, ricercatore presso l’Istituto di Genetica Vegetale del CNR di Bari, pone l’accento sull’importanza degli studi sulla decodificazione del genoma del riso, la cui mappa è stata di recente completata da un gruppo di ricercatori di una decina di Paesi, coordinati dal Giappone. “Lo studio del genoma del riso – spiega Pignone – può permettere di trovare quello di altre graminacee, perché il riso e gli altri cereali hanno progenitori comuni e, quindi, porzioni di genoma simili. Bisogna pensarla come un lego – aggiunge – dove ogni mattoncino è un gruppo di geni. Un gene del riso vicino ad un carattere può far pensare ad una vicinanza con un gene presente in altre specie”.
Per capire meglio bisogna pensare a qualcosa di simile allo studio del genoma umano mediante il quale si tenta di sconfiggere alcune malattie finora incurabili. Pignone porta l’esempio del Golden Rice (il riso dorato), arricchito di vitamina A. Questo tipo di riso, denominato così per il colore giallognolo che lo caratterizza, è stato sviluppato nel 1999 modificando tre geni dalla giunchiglia e uno da un batterio. Grazie al suo apporto vitaminico i ricercatori lo considerano un prodotto fondamentale per le popolazioni che si nutrono di solo riso. Per limitare i danni causati dalla carenza di vitamina A, bastano piccoli apporti di questa sostanza. Il brevetto del Golden Rice appartiene alle multinazionali, ma Pignone ritiene che, diffondendo gli strumenti medianti i quali è possibile creare qualità di riso simili, è possibile diffondere un alimento essenziale come il Golden Rice superando il problema dei diritti.
Tratto da: ecplanet.com
By Alessandra Pugliese – Fonte: Domenico Pignone – Istituto di Genetica Vegetale del CNR, Bari
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Altre indagini sulla storia del Riso – ORIGINI STORICHE
Riso è una parola di origine indiana, deriva dalla parola della lingua Tamil arisi, documentata già 5000 anni fa nell’India meridionale. Viene coltivato da epoche antichissime in estremo oriente, Cina, India, Giappone. Anche gli arabi, gli armeni, i copti, e i siri conobbero il riso e ne studiarono i metodi di coltura come risulta da numerosi riferimenti e citazioni presenti nei testi scritti.
In Occidente il riso arrivò invece in epoca cristiana. Gli egizi e gli ebrei probabilmente non lo conobbero, e greci e romani lo citano solo come pianta aromatica e medicinale: ne parlano Teofrasto e Stradone, il medico Galeno lo consiglia nella dieta dei gladiatori e Plinio il Vecchio lo descrive nella sua Storia naturale.
Tuttavia per tutto l’alto medioevo in Europa il riso continua a essere considerato ingrediente per dolci o pianta medicinale.
Veniva soprattutto importato dall’oriente dietro pagamento di forti dazi e veniva considerato prezioso al pari delle altre spezie pregiate. E’ difficile rintracciare l’arrivo del riso in Italia.
Forse fu introdotto dagli Arabi in Sicilia, o dai crociati di ritorno dalla Terrasanta, o dai mercanti della Repubblica di Venezia.
La coltura cominciò alla fine del quattordicesimo secolo, forse non a caso dopo l’ondata di terribili epidemie di peste che decimarono la popolazione di tutto il continente. Le prime risaie furono in Piemonte e in Lombardia, terre fertili e ricche di fiumi.
Si sa che nel 1475 Gian Galeazzo Sforza dona un sacco di riso ai duchi d’Este, contribuendo così alla sua diffusione, che continuò a crescere. Alla fine del diciassettesimo secolo approdò in America.
Per molti secoli in Occidente non fu coltivata che una sola varietà: il Nostrale. Fu solo a metà del secolo scorso che numerose altre varietà furono importate dall’oriente e che iniziarono selezioni e sperimentazioni di genetica vegetale. Altro passo importante verso la moderna risicoltura fu quello compiuto da Cavour che diede l’impulso alla costruzione di grandi sistemi irrigui nel vercellese: l’irrigazione continua delle risaie proteggendo le piante dal freddo permise le prime coltivazioni intensive.
Oggi l’Italia, che è il primo coltivatore europeo di riso, dedica circa 230.000 ettari di terreno alle risaie.
La maggior parte delle coltivazioni di riso della penisola si trova nel pavese e in Lomellina, sia per la tradizione delle tecniche di coltivazione, sia per le caratteristiche morfologiche del terreno.
COME SI COLTIVAVA
Il lavoro della risaia coinvolgeva uomini e donne: le donne venivano chiamate mondine: erano le mogli dei lavoranti, che prestavano servizio nella risaia in modo continuativo da febbraio a novembre, oppure le forestiere, che lavoravano in modo occasionale nei momenti di maggiore necessità.
Si comincia con la concimazione: i bifolchi, che conducevano l’aratro tirato dai buoi, o i cavallanti, che invece procedevano a cavallo, scaricavano sui campi carichi di concime e le donne erano incaricate di spargerlo sul terreno. Si procedeva con l’aratura, il livellamento del singolo campo, chiamato camera e la preparazione degli argini tra le camere, che veniva di solito effettuata da lavoratori stagionali o avventizi. L’aratura andava completata con la zappatura, in genere effettuata dalle donne. Poi si immetteva l’acqua e il terreno andava ancora una volta livellato.
La semina, nei mesi di marzo e aprile, era compito di lavoratori avventizi esperti e ben pagati. I seminatori per gettare la semente in modo uniforme dovevano camminare con passo cadenzato e il lavoro il lavoro era abbastanza pesante. La monda avveniva tra maggio e giugno ed era un lavoro tipicamente femminile: le mondine procedevano allineate, le erbe venivano passate di mano in mano e depositate nei solchi laterali dall’ultima della fila.
Per lavorare nell’acqua le donne facevano un’arionda ovvero tiravano su la gonna e la fermavano con il laccio del grembiule. Il lavoro non era particolarmente gravoso e le mondine potevano cantare. Uno dei canti tradizionali è diventato poi un famoso canto partigiano: O Bella Ciao.
Ma con il termine monda si intendeva anche il trapianto: si tratta di un’altra tecnica di coltivazione, il riso veniva seminato in vivaio e trapiantato dopo quaranta giorni. Il lavoro di trapianto era più faticoso della raccolta delle erbacce, perché si doveva procedere a ritmo cadenzato arretrando, e si aveva un tempo limitato. Veniva svolto per lo più dalle mondine forestiere.
Anche la mietitura avveniva con squadre in fila: i mietitori con una mano tagliavano le spighe e con l’altre le afferravano, fino ad avere le mani piene: allora le deponevano e le legavano insieme. Il lavoro era faticoso e anche pericoloso: per esempio se una mondina rimaneva indietro correva il rischio di essere ferita dalla falce delle compagne della fila dietro.
Fino all’Ottocento sulle messi essiccate al sole veniva effettuata la tresca: gli animali da tiro passavano sul raccolto, che poi veniva battuto. Nel secolo scorso si diffuse poi la trebbiatura.
Le prime macchine erano a vapore e richiedevano ancora molto lavoro umano, soprattutto maschile.
Il risone ottenuto dalla trebbiatura andava ora pulito: si spargeva nell’aia per l’ultima essiccatura e poi si raccoglieva separandolo dalla paglia con una scopa a trama larga. All’inizio del Novecento si diffusero gli essiccatoi, ma il metodo tradizionale continuò a essere utilizzato ancora per diversi decenni.
VARIETÀ ANTICHE
Esistono moltissime varietà di riso, decine quelle attualmente coltivate in Italia, molte altre quelle coltivate anticamente che si sono perse nel corso dei secoli.
A Langosco, sulla valle del Sesia, sono state riportate in vita, e coltivate con l’applicazione fedele delle tecniche di coltura del XVII secolo, alcune fra le più antiche varietà di riso di cui esistano ancora sementi germinabili:
Riso Lencino progenitore del famosissimo Carnaroli
Riso America 1600
Riso Gigante di Vercelli
Tratto da: memoriedilomellina.it
L’impegno della genomica cinese per migliorare il riso
Un’analisi genetica condotta al Beijing Institute of Genomics, punta di diamante della ricerca cinese nel campo della genomica, ha chiarito i meccanismi dell’antica domesticazione delle due varietà di riso coltivato japonica e indica. Un primo processo avvenne nella Cina meridionale, seguito da altri incroci con varietà selvatiche locali in altre regioni dell’Asia meridionale e del Sudest asiatico.
Le conclusioni dello studio serviranno da guida nella ricerca di cultivar di maggior resa senza bisogno di ricorrere agli OGM, in un settore cruciale per il fabbisogno alimentare del gigante asiatico.
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Altra Storia del riso
Frate Vella era decisamente un burlone. Forse per noia, forse per la smania di costruire la Storia a suo modo, disseminò gli archivi di falsi documenti sulla dominazione araba in Sicilia. Un bel giorno, questo fantasioso religioso medioevale “inventò” un rescritto arabo del IX secolo dal quale avrebbe dovuto risultare che il riso si era diffuso in Sicilia prima dell’anno Mille. Infatti, secondo quello stesso rescritto, nell’800 dopo Cristo sul cereale era stata istituita dai dominatori islamici una gabella. Ma gli storici, come riferì Renzo Ciferri anni fa, hanno definitivamente smascherato il disinvolto fratacchione. Questo non significa che il riso non sia approdato anche in Sicilia e in Italia Meridionale per opera degli arabi più di mille anni fa. Tracce più attendibili e convincenti evidenziano come, prima ancora dell’espansione islamica nel bacino del Mediterraneo, iniziatasi intorno al 640 dopo Cristo, il riso fosse fra le merci che passavano attraverso la “Porta del pepe” di Alessandria d’Egitto. Date le sue qualità curative, era considerato una spezia, comunque meno preziosa del pepe.
Sicuramente i misteri che avvolgono l’origine della pianticina del riso ed il suo cammino in giro per il mondo, fino ad essere arrivata al 45′ parallelo dove sussistono le condizioni estreme di coltivazione, appassioneranno ancora per lungo tempo gli studiosi.
Nel 1952, ad esempio, il giapponese Matsuo ha per primo ricostruito pazientemente la vicenda millenaria del riso servendosi della genetica. Ed ha fornito una sua chiave di lettura del giallo: l’Oryza Sativa (è il suo nome botanico) sarebbe comparsa per la prima volta più di sette, od ottomila anni fa, dalle parti dell’isola di Giava; oppure secondo un’altra ipotesi proverrebbe dalla zona dei laghi cambogiani.
Una controprova, che non farebbe permanere dubbi sulla “patria” estremo orientale della specie, viene dall’archeologia: alcuni scavi dimostrerebbero che in Cina, già settemila anni fa, si coltivava e si consumava riso. I resti fossili nella valle dello Yang Tze offrono un’altra conferma: tre o quattro mila anni fa in quella regione le risaie erano già una realtà. I reperti rinvenuti in India, nelle grotte di Hastinapur situate nello stato di Uttar Pradesh, dicono poi che intorno al 1000 avanti Cristo le popolazioni di quelle lontane contrade si nutrivano di riso.
Anche le leggende antichissime e tramandate verbalmente, i detti popolari, la storia della cucina orientale che ha nel riso uno degli elementi basilari, sono lì a dire di sì: non solo l’Oryza Sativa ha risolto il quotidiano dramma della fame, ma ha stimolato governanti e governati a darsi da fare per un’agricoltura più razionale e redditizia; oppure ha ispirato massime con un valore davvero universale.
Eccone un piccolo campionario.
Volendo evidentemente rassicurare sull’attenzione sempre vigile della Provvidenza, consiglia un proverbio cinese:”Mangia il tuo riso, al resto ci penserà il cielo”. Ed un altro detto orientale, che riassume alla perfezione il ruolo economico e sociale del riso, avverte:
“Uno lavora e nove mangiano riso”. Inoltre, parlando delle peculiarità alimentari e terapeutiche del chicco, i medici orientali ammonivano e ammoniscono: “Noi viviamo per quello che digeriamo, non per quello che mangiamo”. I saggi della Scuola Salernitana non avrebbero potuto essere più efficaci. Né più incisivo riuscirebbe ad essere chi dovesse illustrare sinteticamente la completezza nutritiva del riso che, unico assieme al mais, possiede tutti gli aminoacidi essenziali e che è altamente assimilabile. E, fra le tante, ecco una leggenda significativa sulla scoperta fortuita (nel XIX e nel XX secolo accadrà ripetutamente in Italia) di una varietà di riso capace di maturare più velocemente e quindi, con la possibilità di coltivazione alle latitudini settentrionali.
La riferì il già citato Ciferri in una sua pubblicazione divenuta fondamentale per ogni ricerca seria sulla storia della risicoltura. Kang Hi era un imperatore che visse fra il 1662 e il 1723 avanti Cristo e che aveva la passione dell’agricoltura. Un giorno notò che, in un suo campo di riso, alcune pannocchie erano maturate prima. Osservò con maggiore attenzione, ci lavorò attorno con spirito scientifico assieme ai suoi dignitari e ne saltò fuori lo “yu – mi”, il riso imperiale, o precoce, che venne seminato e coltivato a settentrione della Grande Muraglia dove arriva prima la stagione fredda. Come anche succede – per rimanere all’Europa – nella Pianura Padana, l’area italiana dove è concentrata la coltivazione risicola; o come accade in Ungheria, Romania, Unione Sovietica ed in altri angoli del vecchio continente dove la pianticina deve giungere a maturazione entro 180 giorni per non essere distrutta dalle intemperie.
Ed infine alcuni dati eloquenti che provano quanto conti, abbia contato, e presumibilmente conterà per molto tempo ancora il riso nell’alimentazione dei popoli orientali; quindi, cifre che anche dimostrano quanto abbia pesato e quanto pesi il cereale sulla cultura e sui costumi degli abitanti dell’immenso Sud-Est asiatico. Un laotiano consuma annualmente intorno ai 170 chilogrammi di riso e, come ha fatto rilevare in un suo studio assai puntuale e completo Angelo Politi, non siamo al massimo perché, una quindicina di anni fa, la razione pro-capite era ancor più consistente: circa 177 chilogrammi. Seguono, per rimanere in Asia, i cambogiani con 152 chilogrammi, i vietnamiti e i thailandesi con oltre 140 chilogrammi, i coreani del nord con 138 chilogrammi e quelli del sud con 120, i cinesi con oltre 103 chilogrammi. Ma, sempre per citare i casi maggiormente esemplificativi, anche taluni paesi africani non scherzano: nel Madagascar il consumo medio per persona all’anno è di 139 chilogrammi, mentre nella Sierra Leone è di 120 chilogrammi. Al confronto, le statistiche che ci riguardano più da vicino impallidiscono.
Infatti, in Europa occidentale il consumo è di 4,1 chilogrammi (5 in Italia e 3,7 circa nell’area della Cee).
Queste indicazioni ci portano ad altre, più generali. La prima è sulla produzione mondiale di riso: oltre 595 milioni di tonnellate di prodotto greggio ottenuto seminando una superficie intorno ai 155 milioni di ettari.
La seconda è sul raccolto globale di grano che, col riso, ha avuto il compito di sfamare l’uomo: oltre cinque miliardi di quintali ottenuti, secondo le valutazioni del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, da oltre 230 milioni di ettari. Assieme, riso e grano assicurano produzioni superiori a quelle di tutti gli altri cereali che si coltivano sul globo (8 miliardi e 500 milioni circa di quintali).
Ma il riso, che serve all’autoconsumo nella percentuale di circa il 97% e che, quindi, è marginale nelle transazioni internazionali, fatti i conti sarebbe più generoso del grano.
Per l’appunto su questa sua generosità, che in pratica voleva e vuole dire capacità di combattere concretamente la sottoalimentazione, ha fondato in Europa la sua affermazione nel XV e XVI secolo. Per raccapezzarci dobbiamo, però, riprendere il bandolo delle vicende storiche.
Avevamo lasciato il riso nei fondaci della “Porta del pepe” di Alessandria d’Egitto. In quegli anni (intorno al 550 dopo Cristo) se ne occuparono ampiamente in manoscritti dedicati agli alimenti e ai metodi di coltivazione arabi, siriani, copti, nubiani, etiopi, armeni, georgiani. Fu, rispetto all’antichità, una svolta perché, a quanto pare, gli egizi e gli ebrei non conobbero il riso; e i romani, come Teofrasto e Strabone, lo liquidarono con la vaga definizione di “pianta acquatica” mentre nella sua “Storia naturale” Plinio il Vecchio fece una gaffe raccontando che il riso è il frutto di un vegetale dalle foglie carnose. Anche i più informati della Roma antica considerarono il cereale decorticato buono soltanto per infusi coi quali combattere mal di pancia ed altre affezioni.
In Italia e in Francia l’etichetta affibbiata al riso di medicinale o, al più, di ingrediente per dolci, continuò ad essere valida fino all’alto Medioevo. Forse il cereale arrivò nel nostro Paese portato dai Crociati andati a combattere l’Islam in Terra Santa, o dagli Arabi in Sicilia, come abbiamo già accennato, e dagli Aragonesi a Napoli, o dai mercanti di Venezia che avevano rapporti con il Medio e l’Estremo Oriente. O dai Monaci Benedettini che avevano allestito importanti orti medici e che avevano avviato la bonifica delle zone paludose. Sta di fatto che nel 1300, ignari di un magistrale trattato di agricoltura del califfo Al Abbas Al Rasul, che parlava anche di riso, potenti e benpensanti non si spostarono di un millimetro. Anzi, si profilarono nei confronti della coltivazione nelle zone più acquitrinose le prime persecuzioni a base di “gride” con lo scopo di regolare, contenere drasticamente, in più di un caso vietare.
Un “Libro dei conti della spesa” dei Duchi di Savoia, datato anno 1300, è in merito eloquente: registra un’uscita di 13 imperiali alla libbra per “riso per dolci” e di 8 imperiali per miele. Indubbiamente interessante è anche un editto applicato nel 1340 dai gabellieri di Milano sul riso, “spezia che arrivava dall’Asia, via Grecia” e, pertanto, obbligato a pagare “forti tariffe daziarie”.
Un altro documento del 1371 colloca il cereale fra le “spezierie” e merceologicamente lo definisce “Riso d’oltremare” e “Riso di Spagna”. Ma in quegli stessi anni ne accaddero di ogni colore: epidemie, guerre, carestie dovute anche all’esaurimento dei vecchi alimenti destinati alle plebi come il farro, il miglio, il sorgo, la segale, l’orzo, il frumento turgido. Il colpo di grazia arrivò con la pestilenza biblica che durò dal 1348 al 1352.
La falcidie di persone, senza uguali nella Storia, rese l’Italia una landa desolata. Per la ripresa occorreva un prodotto agricolo altamente produttivo. Il riso, che come ben sapevano gli orientali lo era, fu finalmente visto in una luce diversa; e nei successivi cinquecento anni è andato consolidando, sia pure fra alterne vicende, la sua posizione di alimento strategico anche per l’occidente. Guardando alla sua ascesa che s’inizia nel XV secolo, alcuni studiosi hanno felicemente definito il riso un “vegetale rinascimentale”. Infatti, come i frumenti volgari che sostituirono le specie degenerate sopravvissute alla Latinità, come il mais portato dall’America dopo il 1492 e come la patata nel Nord Europa, esso contribuì al miglioramento della qualità della vita; quindi cooperò al rinnovamento, dopo i drammi del tardo Medioevo, di tutte le attività umane.
Tuttavia, forse più degli altri prodotti, il riso anche in Italia e nei Paesi dell’Europa meridionale ha una storia ad intreccio molto fitto.
Le diverse fasi presentano un indubbio fascino. La coltivazione a metà del XV secolo è già abbastanza diffusa fra il Piemonte e la Lombardia con risaie che si spingono fino alla pianura intorno a Saluzzo.
Nel 1475, Gian Galeazzo Sforza dona un sacco di seme di riso ai duchi d’Este assicurando che, se ben impiegati, si trasformeranno in 12 sacchi di prodotto. Questo rapporto numerico, che aveva per quei tempi del miracoloso, diventa costante e già all’inizio del 1500 le risaie s’estendono su 5000 ettari. Diventeranno 50.000 ettari a metà del XVI secolo; e i raccolti saranno tutelati con appositi provvedimenti, in modo che il seme non sia esportato e diventi un’arma in mano a Stati avversari, mentre nel 1567 il riso al mercato di Anversa sarà reputato valida moneta di scambio alla stregua delle stoffe pregiate e delle armi. Nel 1690 il riso percorre poi a ritroso la strada del mais e giunge in Carolina dove trova l’ambiente adatto per la sua espansione, via via più consistente, anche in America.
Oggi, quaranta o cinquanta varietà di cereali ci sembrano un numero normale. Ma per quattrocento anni, dal XV secolo al 1850, fu disponibile e coltivata l’unica varietà del “Nostrale” che, durante tutto questo lungo periodo, dovette fare pesantemente i conti col “Brusone”, malattia inquadrata con precisione soltanto nel 1903, in occasione del secondo convegno internazionale di risicoltura di Mortara.
Il cambiamento, seguito ad un altro piccolo giallo sul riso, si profilò alla fine degli anni Trenta del XIX secolo.
Nel 1839, il gesuita Padre Calleri se ne venne infatti via abusivamente dalle Filippine con i semi di 43 varietà di riso asiatico che sarebbero poi serviti ai pionieri della genetica vegetale per creare la moderna risicoltura. Erano, questi selezionatori, più poeti della risaia che scienziati: osservando il comportamento della natura e, andando a tentoni con prove continue, ottennero le varietà più note e delle quali permane inalterata la memoria anche in cucina.
I risultati fondati esclusivamente sull’empirismo, hanno però lasciato progressivamente il posto ai risultati derivanti dal lavoro dei ricercatori di livello scientifico sempre più ragguardevole. La nuova fase s’apri in realtà a Vercelli nei primi anni di questo secolo con la istituzione della Stazione sperimentale di risicoltura. Negli anni Settanta le strutture di ricerca e di sperimentazione si sono arricchite del modernissimo Centro per il riso di Mortara, fondato e gestito dall’Ente Nazionale Risi. A Vercelli la vecchia “Stazione” è stata, nel frattempo, trasformata in Sezione specializzata dell’Istituto nazionale di cerealicoltura.
Senza dubbio il periodo di progresso più spettacolare della risicoltura italiana s’inizia a metà del secolo scorso, allorché per impulso di Cavour gli agricoltori del Vercellese si organizzano e, nel 1853, istituiscono uno dei più efficienti e, per l’epoca, grandi sistemi irrigui. Senza acqua ben distribuita con cui sommergere i campi per proteggere le coltivazioni dalle forti escursioni termiche fra il giorno e la notte, il raccolto non avrebbe potuto, né potrebbe oggi, giungere a maturazione.
La complessa infrastruttura viene potenziata nel 1866 con la costruzione del Canale Cavour che permette il “trasferimento” di risorse idriche dai fiumi Po, Dora Baltea, Sesia, Ticino e dal Lago Maggiore in un comprensorio di circa 400.000 ettari. Il completamento si avrà nel 1923 con la costituzione, a Novara, di un organismo per l’autogestione delle acque come settant’anni prima avevano fatto i vercellesi.
Nella seconda metà del XIX secolo, inoltre, grazie alle macchine progettate e prodotte a Vercelli, nel Novarese e nel Milanese. in Germania e in Inghilterra, la moderna industria risiera si sostituisce alle pilerie settecentesche.
Le diverse fasi di coltivazione (preparazione dei terreni, inondazione e semina, monda del riso e mietitura) nell’arco di 180 giorni fra marzo ed ottobre, richiedevano anche molta mano d’opera. Soprattutto l’eliminazione manuale delle erbe infestanti ed il taglio del raccolto, fino agli anni Cinquanta portò in risaia nella tarda primavera e in autunno 260-280 mila persone, il 60% delle quali provenienti dalla Lombardia, dall’Emilia, dal Veneto, negli anni precedenti all’avvento del diserbo chimico dalle regioni meridionali. Anche la pratica del trapianto per sfruttare il suolo con altre coltivazioni, poi abbandonata, richiese lavoratori molto abili e in numero elevato.
Fra l’ottocento ed il primo Novecento le condizioni sociali e il trattamento economico di mondariso, braccianti e salariati determinarono, inoltre, forti conflitti sociali che si risolsero nel 1906 con i primi contratti collettivi basati sulla giornata lavorativa di otto ore. In quegli stessi anni comparvero le prime macchine per meccanizzare le diverse pratiche di coltivazione, mentre bisognerà attendere fino al 1952 per l’introduzione sperimentale delle sostanze chimiche diserbanti che si diffonderanno dal 1957 e che imprimeranno una svolta decisiva in risaia dai primi anni Sessanta.
La produzione risicola italiana dipende, oggi, dalle tecnologie chimiche e meccaniche più avanzate. Il milione e duecentomila tonnellate ottenute su 200 mila ettari (il 90% concentrati nel triangolo Novara, Vercelli, Pavia) vengono raccolti ed essiccati completamente a macchina. Ogni ettaro, che nel 1939 richiedeva in media 1.028 ore di lavoro, attualmente non impegna mediamente per più di 50 ore.
Nell’ambito della Cee i paesi che coltivano riso, tutelato in base al trattato di Roma, dal 1967 sono Francia (18.700 ettari), Grecia (20.000 ettari), Portogallo (23.000 ettari), Spagna (114.300 ettari). L’Italia è, dunque, di gran lunga il partner risicolo più importante.
E questa sua posizione preminente ha aumentato durante 130 anni le proporzioni dei problemi da affrontare e risolvere.
Una delle crisi più profonde che la risicoltura nazionale dovette affrontare fu all’indomani della grande depressione mondiale del 1929. Ma il settore reagì con la costituzione, nel 1931, dell’Ente Nazionale Risi che esplica da allora un’intensa attività tecnico economica nonché promozionale a sostegno delle categorie interessate; ossia produttori agricoli, industriali di trasformazione, operatori commerciali, lavoratori e tecnici.
Le statistiche e taluni piatti regionali come i risotti rustici, con l’originario compito di garantire un nutrimento sufficiente alle classi meno abbienti, confermano che il cereale ha svolto un essenziale ruolo sociale dall’Unità d’Italia agli anni Quaranta. Successivamente ha parzialmente mutato funzione e questo cambiamento si rispecchia con evidenza nel diagramma dei consumi medi pro-capite (1 0 chilogrammi nel 1870; 1 1 chilogrammi nel 1920; 8 chilogrammi nel 1940; 4,5 chilogrammi nel 1980).
La media per persona sta nuovamente risalendo (5 chilogrammi). Questo alimento, dopo essere stato in Occidente spezia, quindi cibo per sopravvivere, è ora il protagonista di un’altra “performance”: la modificazione che lo ha inserito nella cucina colta, civile, essenziale dell’Europa più dinamica la quale guarda con rinnovata attenzione all’Oriente e alle sue tradizioni millenarie.
Più antico di duemila anni del basilare latte di capra e di pecora (il genere umano, secondo gli storici, usa il latte caprino da cinquemila anni), coevo del vino e, forse, dell’olio d’oliva che pure viene dall’estremo Oriente, il riso ha davvero ogni qualità per perpetuare la sua fama di primo fra le cinque specie alimentari fondamentali. E, come i fatti quotidiani stanno dimostrando da anni, tecniche alimentari e gastronomia utilizzeranno nei prossimi decenni con sempre maggiore convinzione le sue virtù dietetiche.
© 2001 Ente Nazionale Risi – tutti i diritti riservati
Tratto da: enterisi.it
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Varietà di RISO:
è una pianta cerealicola (Oryza sativa) di castissima diffusione in tutto il mondo ( ne esistono oltre 100.000 varietà). Quello coltivato e consumato in Italia appartiene alla sottospecie japonica; ha stelo sottile, cavo, alto circa 1 m; sull’apice della pianta si forma una pannocchia che quando matura porta numerosi granelli (i frutti secchi tipici dei cereali), i quali alla raccolta restano avvolti in rivestimenti fogliari giallastri (costituendo il cosiddetto risone).
Gli involucri vengono asportati in seguito a successive lavorazioni de pilatura e sbramatura. Dal punto di vista merceologico si classificano quattro ripi di riso: comune od originario, a granello opaco p perlato, poco resistente alla cottura, indicato per la preparazione di minestre (ne fanno parte la varietà “Balilla”, “Raffaello”, “Pierrot”); semifino, a granello perlato maggiormente resistente alla cottura (varietà “Maratelli”, “Rosa Marchetti”, “Vialone nano”, “Romeo”); fino, dal granello a struttura vitrea, resistente alla cottura (varietà “Roma”, “Ringo”, “Rizzotto”, “Razza 77”); superfino, a granello vitreo molto resistente alla cottura (varietà “Arborio”, “Canaroli”, “Baldo”).
Il riso ha le sue origini nell’attuale Indonesia (i reperti più antichi risalgono a circa il 7000 a.C.).
Fu noto ai greci e ai romani non come alimento ma come pianta medicinale.
I risi delle varietà appartenenti al tipo comune cuociono, secondo le preparazioni, tra i 12 e i 13 minuti; i semifini tra i 13 e i 15; i fini tra i 14 e i 16; i superfini tra i 16 e i 20. Il primo tipo è generalmente impiegato per minestre in brodo e dolci; il secondo per minestre in brodo di lunga cottura, timballi e supplì; il terzo per verdure ripiene, bordure, sartù e bombe; il quarto per risotti e anche per le preparazioni delle due categorie precedenti.
Oggi esistono in commercio tipi di riso “che non scuociono”, ossia che mantengono inalterate le proprie caratteristiche gastronomiche anche dopo parecchie ore dal momento della cottura; ciò è dovuto a un processo particolare di precottura, detto parboiling, grazie al quale si ottiene il doppio risultato di rendere il riso a cottura rapida e, appunto, a maggior tenuta una volta cotto, ma che non si avvicinano alla qualità dei risi descritti precedentemente.
Il riso si conserva bene anche se la confezione è aperta da qualche settimana, a patto che lo si tenga lontano dall’umido, in luogo fresco e aerato.
Si può dire che un riso è ben cotto quando il dente, nel tagliare un chicco, incontra una resistenza elastica ma non un nucleo ancora duro.
Tratto da: marchenet.it
vedi Riso OGM: il riso contaminato da proteine umane ! + Semi Antichi salvezza della salubritaà dei cibi vegetali
GRANO SARACENO (Fagopyrum esculentum)
Il grano saraceno si distingue dai comuni cereali per l’elevato valore biologico delle sue proteine, che contengono gli otto amminoacidi essenziali in proporzione ottimale, mentre i cereali “veri” (il grano saraceno, a dispetto del nome, non è un cereale) contengono poca lisina.
Il grano saraceno è una buona fonte di fibre e di minerali, soprattutto manganese e magnesio. Ha un indice di sazietà abbastanza elevato, caratteristica comune a tutti i cereali in chicchi.
È privo di glutine, quindi è adatto per i soggetti celiaci.
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Il riso bianco, aumenta il rischio di diabete – mangiare riso raffinato (togliere l’involucro esterno) NON fa bene – 07/03/2012
Mangiare riso bianco, ossia non integrale, fa aumentare il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2. E il rischio aumenta in proporzione al maggior consumo di questo cereale.
Il problema non è il riso in sé, sia chiaro. Ma con tutta probabilità lo è il mangiare un alimento privato di tutte quelle preziose, utili, sostanze e componenti così come è il chicco integrale dopo che è stato sottoposto a raffinatura e “sbiancamento”.
La raffinazione del riso lo spoglia di molte sostanze fondamentali come la fibra, le vitamine, i Sali minerali come per esempio il Magnesio. Molti di questi elementi sono stati associati a una protezione dal diabete.
Il discorso tuttavia varrebbe anche per tutti quegli altri alimenti che subiscono lo stesso trattamento, come il frumento che diventa farina per pane, pasta e così via…
Lo studio in questione però si è concentrato sul possibile collegamento tra il consumo di riso bianco e l’insorgere del diabete di tipo 2, e ha trovato un riscontro.
Ne dà notizia il British Medical Journal, che riporta i risultati di questa nuovo studio revisionale condotto dai ricercatori della Harvard School of Public Health.
Gli scienziati miravano a trovare una correlazione tra la quantità di riso bianco mangiato e se vi fossero differenze tra i tassi di diabete di tipo 2 tra le popolazioni occidentali e asiatiche – queste ultime proprio perché sono le maggiori consumatrici di riso.
Gli studi analizzati erano in tutto quattro, di cui due condotti in Cina e Giappone; gli altri due condotti in Australia e negli Stati Uniti. Tutte le persone coinvolte negli studi non presentavano la malattia al basale o inizio studio.
Il perché gli scienziati ritengono il riso bianco un potenziale fattore d’insorgenza del diabete di tipo 2 è dovuto al suo alto valore di Indice Glicemico. Difatti gli alimenti con un alto IG sono considerati fattori di rischio per il diabete.
L’analisi dei dati da parte dei ricercatori ha messo in mostra come vi fosse una tendenza nello sviluppo del diabete più marcata nei Paesi asiatici dove il consumo di questo cereale è di molto superiore rispetto ai Paesi occidentali: si stima che, in media, un cinese mangi quattro porzioni al giorno di riso, contro le meno di cinque alla settimana di un occidentale.
Tuttavia la tendenza al rialzo dei casi di diabete è stata scoperta sia nei Paesi asiatici che occidentali, con una maggiore incidenza nelle donne.
Gli autori dello studio stimano che supponendo una porzione media di 158 g pro-capite, ogni aumento di questa faccia accrescere il rischio del 10 percento.
Ecco pertanto che un «elevato consumo di riso bianco è associato a un rischio significativamente elevato di diabete di tipo 2», scrivono gli autori dello studio.
Per cercare di arginare l’epidemia mondiale di diabete di tipo 2, il suggerimento degli scienziati è di mangiare cereali integrali sostituendoli, se possibile, ai carboidrati raffinati.
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RISO ROSSO INTEGRALE (biologico)
Il riso rosso integrale biologico o meglio biodinamico, è una varietà poco conosciuta, ma molto nutriente, che deve il suo colore e le sue proprietà al fatto che mantiene il rivestimento che copre il chicco, il quale contiene una grande quantità di nutrienti e fibre.
Si tratta in ogni caso di un riso a chicco lungo di colore rosso scuro, normalmente di tipo integrale, spesso da coltivazione biologica, che richiede tempi di cottura più lunghi rispetto al riso raffinato ma che ha il vantaggio di contenere più fibre e sali minerali.
Il riso rosso è uno di quegli alimenti “riscoperti” per le sue proprietà ed i suoi benefici che è in grado di apportare al nostro organismo. Per anni il riso rosso integrale era praticamente sparito dalle tavole a causa del fatto che in commercio era possibile trovare diverse tipologie di riso con una resa decisamente migliore di quello rosso.
Recentemente, però, si è assistito al suo ritorno in auge dovuto principalmente all’assenza di glutine al suo interno, che dunque rispetto al riso bianco raffinato mantiene un maggior contenuto di fibre ed è una fonte importante di sali minerali come il fosforo e il magnesio:
– Ricco di fibre
– Regola i livelli di zucchero nel sangue
– Antiossidante
– Contiene vitamina B6 e sali minerali come il ferro, il magnesio e lo zinco
– Riduce i livelli del colesterolo e dei trigliceridi
– Combatte la stitichezza senza dover assumere integratori o lassativi grazie alle fibre del riso.
Non si tratta di una dieta da seguire in maniera continuata per più di tre giorni, bensì è una pulizia puntuale dell’organismo che aiuta a compensare gli eccessi di tutti i giorni.
Il riso rosso integrale è un alimento molto saziante, quindi non patirete la fame durante la dieta. È possibile che abbiate voglia di mangiare altre cose, ma questo non ha nulla a che vedere con l’appetito.
Il corpo, e più precisamente lo stomaco, si sgonfia facilmente grazie a questa dieta perché viene facilitato molto il processo digestivo.
Con questo alimento perderete un po’ di peso, ma dovete continuare a fare attenzione all’alimentazione anche dopo la dieta per non riprenderlo immediatamente.
Facilita l’eliminazione delle tossine attraverso le feci, l’urina, il sudore, ecc, e il corpo ha la possibilità di disfarsi delle sostanze che lo intossicano.
Il corpo elimina anche l’eccesso di muco, migliorando malattie croniche come la sinusite.
Potete notare sollievo o miglioramenti nelle malattie o nei dolori cronici.
Ricetta:
– Riso rosso integrale, preferibilmente biologico
– Gomasio (sesamo tostato e tritato con sale marino)
– Mele (facoltativo o nei casi in cui si soffra di iperacidità gastrica)
I tempi di cottura del riso rosso sono di circa 35-40 minuti
Il condimento ideale per il riso rosso orientale è a base di curry e di spezie. Quando lo avrete preparato potrete condire o accompagnare il vostro riso rosso integrale con delle verdure di stagione saltate oppure con dei legumi lessati, ad esempio ceci o fagioli.
Il riso rosso integrale non va confuso con il riso rosso fermentato.
RISO ROSSO FERMENTATO (integratori al riso rosso): Attenzione !
Colesterolo alto ? il “naturale” riso rosso fermentato, perfetto sconosciuto….
Recentissima la pubblicazione sul British Journal of Clinical Pharmacology (2017), dei dati relativi alle segnalazioni di reazioni avverse correlabili alla assunzione di integratori a base di riso rosso fermentato.
Questo prodotto “naturale, è presente in una quantità innumerevole di integratori di libera vendita,
utilizzati per ridurre l’ipercolesterolemia (spesso anche senza controllo medico), talvolta anche da pazienti intolleranti alle statine, o in associazione ad altri farmaci o erbe, che oltretutto influenzarne il metabolismo stesso.
Ritenuto abitualmente più sicuro proprio perché “naturale”, in realtà questo lavoro, condotto dai colleghi dell’Istituto Superiore di Sanità, passa in rassegna tutte le sospette reazioni avverse segnalate. Abbastanza attese in verità, perché sappiamo bene che il riso rosso fermentato con il fungo Monascus, contiene statine simili o identiche a quelle di sintesi, e quindi con simili potenziali effetti collaterali. Tanto che su 52 soggetti un quarto ha necessitato pure il ricovero in ospedale. E le più importanti reazioni sono registrate sono:
– dolori muscolari (fino ad un caso di rabdomiolisi vera e propria);
– aumento del CPK;
– disturbi gastrointestinali;
– danni al fegato (fino a casi di epatite);
– reazioni dermatologiche.
Fondamentale è quindi informare, non solo e non tanto i pazienti, quanto chi consiglia o prescrive questi prodotti, soprattutto a pazienti che già abbiano avuto problemi con le statine. In questi casi infatti occorrono strategie, anche naturali, ben precise, per difenderli dai danni muscolari ed epatici. Tre le considerazioni a margine di questa rassegna:
a) le 52 segnalazioni ricevute possono sembrare in numero assoluto anche poche, ma c’è da considerare il bassissimo tasso di segnalazione da parte dei sanitari, abitualmente inferiore al 10%;
b) quasi tutti i prodotti segnalati contengono 3 mg di monacolina, mentre oggi la maggior parte dei prodotti sul mercato ne contiene 10 mg, pertanto c’è da aspettarsi una reale presenza di danni ben superiore a quella solo teorizzata;
c) nell’estratto di riso rosso oltre alla monacolina dichiarata vi sono anche altre monacoline, e questo può essere un altro motivo di reazioni avverse anche a bassi dosaggi. Nell’ articolo sono descritte in modo dettagliato tutte le reazioni e tutti i prodotti che sono stati segnalati.
RISO NERO
Il riso nero è una varietà ibrida di riso integrale ottenuta secoli fa, nell’antica Cina, mediante la tecnica dei rincroci di altri tipi di riso. Si presenta come un chicco un po’ più allungato rispetto al riso comune e di color dell’ebano e una volta bollito assume una colorazione brunastra. È un riso di tipo integrale molto ricco di fibre e di sali minerali. Esistono diverse varietà di riso nero e alcune vengono coltivate anche in Italia.
Nell’antica Cina il riso nero era una rarità e le difficoltà nel coltivarlo erano davvero molte. Per questo motivo rimase per molti anni, fino agli inizi del XIX secolo, un alimento proibito al popolino. Era conosciuto come il “riso proibito“, dato che solo l’imperatore e la sua corte avevano il privilegio di assaggiare questa prelibatezza.
Scopriamo quali sono le proprietà del riso nero, i valori nutrizionali e come cucinarlo al meglio.
Rispetto al riso raffinato ha un contenuto maggiore di fibre e mantiene un quantitativo più elevato di vitamine e di sali minerali. Il colore nero denota la presenza di sostanze antiossidanti nel rivestimento dei chicchi di riso.
Molto utile come fonte di sali minerali il riso nero contiene soprattutto selenio, ferro, calcio, zinco e manganese, tutti elementi benefici che supportano il corretto funzionamento dell’organismo e che, tra l’altro, ci aiutano a prevenire invecchiamento e malattie.
Vi sono diverse varietà del riso nero integrale:
– Il Venere è una varietà dai chicchi scuri nata dall’incrocio tra un riso orientale e un riso italiano. Il riso nero Venere viene coltivato in Italia, soprattutto in Piemonte.
– Il riso Nerone è una varietà di riso integrale biologico. Viene coltivato in Italia. I suoi chicchi sono di colore nero brillante. È ideale per preparare insalate di riso e piatti etnici.
– Il riso Thai: è il riso tailandese, viene coltivato tradizionalmente nel Nord del Paese. I suoi chicchi sono completamente neri, sono croccanti e con la cottura sprigionano un sapore caratteristico che ricorda le nocciole. Riesce a crescere anche in terreni semi-aridi.