Guardate come viene prodotto il prosciutto che mangiate…
La produzione del prosciutto nasconde un segreto di fabbricazione di cui avremmo potuto fare a meno: la sofferenza dei maiali. Che si tratti di prodotti “di alta gamma”, come il prosciutto di Bayonne in Francia, o di prodotti “standard”, come quelli che si trovano nei supermercati ai prezzi più bassi, le condizioni di allevamento dei maiali sono le stesse in tutta Europa.
PROSCIUTTO ITALIANO ? MACCHÈ. ANIMALI ALLEVATI ALL’ESTERO E NUTRITI CON RIFIUTI DI BASI MILITARI ED OSPEDALI
Il prosciutto italiano? L’Italia non l’ha mai vista nemmeno col binocolo, è tutto marketing, pubblicità ingannevole.
La legge permette di definire italiano un prodotto che subisce l’ultima fase di lavorazione in Italia ma si tratta di animali allevati in paesi come Turchia e Romania che, tramite uno specifico giro di ‘scatole cinesi’ con passaggi in molteplici paesi europei, approda poi nello stivale.
Con cosa vengono nutrite queste bestie nei cosiddetti allevamenti a zero spese? Con escrementi degli animali presenti nei livelli posti più in alto, rifiuti da basi militari ed ospedali.
Cosa dite ? Abbiamo sempre mangiato questa roba ? Cazzate…è negli ultimi 30 anni che le aziende ci stanno avvelenando.
Smettete di mangiare questi veleni, pensate alla salute.
PROSCIUTTO COTTO al 60% di acqua e prodotti chimici
https://vm.tiktok.com/ZGe1sXecD/
TI AVVELENI ANCHE CON L’OLIO CONTRAFFATTO CHE COMPRI AL SUPERMERCATO E NON LO SAI, PERCHÉ C’È SCRITTO OLIO EXTRAVERGINE:
https://quifinanza.it/economia/video/olio-extravergine-oliva-contraffatto-come-riconoscere-falsi/646593/
Quando si tratta di promuovere i loro prodotti, i più famosi produttori di prosciutto sono molto appassionati: si tratta di un prodotto “premium”, fatto a mano, con amore e passione, nel rispetto di tradizioni secolari… Quello che non vi dicono è che la stragrande maggioranza dei maiali allevati per produrre prosciutto, anche se sono “premium”, sono allevati in modo intensivo e sopportano sofferenze atroci per tutta la loro breve vita.
In media, le scrofe trascorrono più della metà della loro vita adulta in una gabbia di metallo. Una settimana dopo il parto, la scrofa viene confinata in una gabbia così piccola che non può nemmeno girarsi. Dopo la nascita dei suoi suinetti, rimane imprigionata in questa gabbia stretta e squallida, con il pavimento nudo, spesso sdraiata nei suoi stessi escrementi. Questo inferno durerà quattro lunghe settimane, il tempo necessario per la crescita dei suinetti. Una volta svezzati i suoi piccoli, verrà inseminata di nuovo.
Non possiamo chiamarlo “top di gamma”: è un incubo.
Cosa stiamo facendo per porre fine a questo calvario?
Dobbiamo lottare su tutti i fronti per far uscire le scrofe dalle gabbie !
https://www.greenpeace.org/italy/storia/17177/un-condominio-infernale-scopri-qual-e-lallevamento-intensivo-piu-grande-del-mondo/
Sembra un incubo ? Purtroppo è già realtà: anche gli allevamenti intensivi italiani sono luoghi di sfruttamento e sofferenza animale, potenziali “bombe ecologiche” per la formazione e diffusione di malattie.
Tanti animali ammassati in spazi ristretti, oltre a subire atroci trattamenti, sono l’ambiente ideale per il proliferare delle malattie, e quindi essi vengono vaccinati ed imbottiti di antibiotici.
A livello europeo, dobbiamo condurre una campagna incessante contro gli interessi delle lobby degli allevamenti intensivi per ottenere il divieto delle gabbie in tutta l’Unione Europea. Allo stesso tempo, dobbiamo contattare i responsabili dell’industria e i principali marchi di prosciutto e salumi affinché cambino le loro pratiche e diventino leader del cambiamento per milioni di scrofe ogni anno.
Insieme, possiamo proteggere gli animali da allevamento.
Attualmente, solo il marchio biologico, garantiscono ai consumatori un prosciutto proveniente da un animale allevato nel rispetto del benessere animale.
Attualmente nessun altro marchio tiene conto del modo in cui i suini vengono allevati. L’immagine idilliaca evocata dalla pubblicità e dalle confezioni dei prosciutti di alta gamma non tiene in realtà conto delle condizioni di vita degli animali.
Il vero costo di questo prodotto? La sofferenza imposta quotidianamente agli animali negli allevamenti intensivi. Animali dotati di una notevole intelligenza, sensibili e capaci di provare tutta una serie di emozioni: gioia, noia, paura, ansia… Come possiamo quindi tollerare che centinaia di migliaia di scrofe trascorrano gran parte della loro vita rinchiuse?
I produttori che traggono profitto da questo commercio sleale devono assumersi le proprie responsabilità e porre immediatamente fine a questa situazione infernale: hanno il potere di farlo. I politici sono lì per stabilire le regole e facilitarne l’applicazione, ma è sul campo che gli agricoltori cambieranno la situazione.
Sensibilizzazione
Sensibilizzate il mondo sull’entità delle sofferenze causate dall’allevamento in fabbrica e contribuite al cambiamento.
Contattateli e Rendete le aziende responsabili ed incoraggiate le aziende ad assumersi la responsabilità per gli animali che sfruttano. Questo per porre fine alla crudeltà dei sistemi intensivi
Fate sentire la nostra indignazione all’Unione Europea, che sta facendo marcia indietro sul divieto delle gabbie.
In pratica, stiamo parlando con le aziende per cambiare le loro pratiche: convincerle a integrare il benessere degli animali al centro delle loro operazioni di allevamento con argomenti seri basati sulle ultime ricerche scientifiche e tecniche, proponendo soluzioni realistiche, monitorando i loro impegni e sostenendole verso un cambiamento duraturo dei metodi di produzione, per porre fine alla crudeltà verso gli animali !
Introduzione alle norme sulla tutela dei suini
L’applicazione dei requisiti minimi per la protezione dei suini si estrinseca nella Direttiva della Commissione Europea 2008/120 e si applica a tutte le categorie di suini (scrofe e scrofette, verri, lattonzoli, suinetti e suini all’ingrasso). La legislazione si pone come obiettivi:
– Migliorare la qualità delle superfici di pavimentazione,
– Accrescere lo spazio disponibile per scrofe e scrofette,
– Introdurre un elevato livello di formazione e competenze del personale riguardo al benessere animale,
– Stabilire requisiti per i livelli di luce e rumore,
– Fornire accesso permanente ad acqua fresca e materiale da grufolare,
– Stabilire un minimo livello di età per lo svezzamento dei suinetti (Fonte).
Quest’ultima Direttiva e la Direttiva 1998/58 del Consiglio sulla protezione degli animali allevati a scopo zootecnico, si fondano sul rispetto delle cinque libertà presentate per la prima volta dal governo britannico nel 1965 nel rapporto Brambell.
PROSCIUTTO NUDO – I COSTI NASCOSTI DELL’ALLEVAMENTO INDUSTRIALE DI MAIALI
Con 12 milioni di capi cresciuti e macellati ogni anno in poche decine di chilometri quadrati, l’allevamento industriale di suini in Italia è una vera e propria bomba ecologica. Per disinnescarla c’è soltanto un modo: ridurre drasticamente i consumi di carne e offrire ai consumatori un’etichetta trasparente che riveli la provenienza da allevamento intensivo.
È quanto emerge da “Prosciutto nudo: i costi nascosti dell’allevamento industriale di maiali”, la nuova indagine dell’associazione Terra! che ricostruisce numeri e impatti di una filiera simbolo del made in Italy, oggi completamente insostenibile.
SCARICA IL RAPPORTO
Come in molti paesi occidentali, anche in Italia assistiamo a una progressiva riduzione dei piccoli allevamenti. A questo corrisponde una crescita del numero di capi per azienda e la definitiva affermazione di un modello di allevamento intensivo con alti costi ambientali, che investono anche le comunità locali e rappresentano un rischio per la salute pubblica, con lo sviluppo di batteri divenuti resistenti alle massicce dosi di antibiotici somministrate agli animali.
Oggi quasi il 90% dei suini italiani è rinchiuso nel 10% di allevamenti con più di 500 capi. Quasi la metà dei maiali allevati si trova in Lombardia, con ben 3.937.201 capi. In cima alla classifica c’è la provincia di Brescia, con i suoi 2.180 allevamenti per un totale di 1.289.614 capi, più dei suoi residenti umani (1.262.678). I suini “autoctoni” coprono circa il 60 per cento del fabbisogno del nostro paese, in cui ogni anno vengono macellati circa 12 milioni di capi. Il resto è di “origine straniera”, prevalentemente nordeuropea (Olanda e Danimarca). Vengono macellati circa 12 milioni di capi. Il resto è di “origine straniera”, prevalentemente nordeuropea (Olanda e Danimarca).
LA BOMBA ECOLOGICA
Negli allevamenti intensivi i resti reflui degli animali chiusi nei capannoni non sono un bene da sfruttare, ma un rifiuto da smaltire. Le feci e le urine sono mescolate con l’acqua di lavaggio e hanno una componente liquida che li rende poco adatti alla fert-irrigazione. L’alta concentrazione di animali in così poco spazio rende questi resti altamente inquinanti perché ricchi di azoto, fosforo e potassio. A tali sostanze vanno aggiunti i farmaci somministrati agli animali, che finiscono con i resti nelle falde acquifere e nell’ambiente.
La quantità di deiezioni prodotte dagli animali d’allevamento è molto elevata. Nel corso di un anno, un suino può produrre feci pari a 15 volte il suo peso. Per dare un’idea dell’impatto, è come se in Italia vivesse una popolazione aggiuntiva di 25,5 milioni di persone che vivono scollegate dal sistema fognario.
Per reggere una filiera a così alta intensità di risorse, servono ogni anno 3,5 milioni di tonnellate di mangimi, gran parte dei quali importati dal mercato internazionale. Se per il mais la produzione italiana copre ancora gran parte del fabbisogno, la soia invece viene quasi tutta dal Sud America (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia). Ogni anno l’Italia importa semi e farina di soia geneticamente modificata, di cui è vietata la coltivazione ma non il commercio.
Al di là della contraddizione sugli OGM, l’utilizzo di queste materie prime per la mangimistica presenta una serie di problemi. Ad esempio il consumo di suolo, con la riduzione di superficie agricola da destinare a colture per il diretto consumo umano e l’aumento della deforestazione nei paesi tropicali. Un terzo delle terre arabili oggi serve a produrre mangimi, e potrebbe aumentare a due terzi nei prossimi trent’anni. La riduzione delle terre a disposizione a fronte della crescita della popolazione mondiale pone un problema urgente di risorse a disposizione.
Senza contare che questa produzione su larga scala richiede un significativo uso di fertilizzanti e pesticidi per aumentare le rese. Come accade per i resti reflui degli allevamenti, che vengono scaricati sull’ambiente, anche le componenti chimiche del modello agro-industriale pesano sugli ecosistemi, contribuendo alla proliferazione di zone morte nei laghi e negli oceani.
I RISCHI SANITARI
L’Italia è oggi il secondo paese in Europa, dopo la Spagna, per uso di antibiotici nella zootecnia. Il 68% degli antibiotici consumati nel nostro paese è somministrato negli allevamenti, quasi tre volte più che in Francia. Si tratta di una quantità che supera di gran lunga la media europea e che ci avvicina a paesi dalle legislazioni meno stringenti, come gli Stati Uniti e la Cina.
Questo uso massiccio può avere gravi conseguenze sulla salute pubblica: i farmaci non solo vengono rilasciati nell’ambiente, inquinando le falde acquifere, ma possono provocare lo sviluppo della cosiddetta antibiotico-resistenza. Il sovra-utilizzo di questi medicinali fa sì che i batteri sopravvissuti ai trattamenti si moltiplichino e possano mutare in ceppi ancora più aggressivi, suscettibili poi di attaccare l’uomo. I nuovi superbatteri non sono più trattabili con i farmaci di un tempo, che hanno perso efficacia proprio a causa dell’uso eccessivo degli antibiotici.
UNA FILIERA NON RIFORMABILE
Oggi un chilo di prosciutto corrisponde a 11 chili di deiezioni, 4 chili di mangime, 6 mila litri d’acqua e 12 chili di CO2*.
Secondo Ciconte, «il modello di allevamento industriale ha trasformato miliardi di animali in macchine fornitrici di materia prima, con impatti giganteschi sul pianeta. Contribuisce al disboscamento di aree ecologicamente importanti come la foresta amazzonica, inquina le falde acquifere e l’atmosfera, aggrava il cambiamento climatico, produce antibiotico-resistenza ed ha un consumo d’acqua spropositato».
È necessaria quindi una inversione di rotta, sia attraverso una drastica riduzione del consumo di carne, sia attraverso una maggiore consapevolezza sugli effetti che gli allevamenti intensivi hanno sul pianeta.
“È urgente costruire un modello di trasparenza in cui al consumatore siano indicati in etichetta i costi ambientali della produzione di carne – raccomanda il direttore dell’associazione Terra! – Bisogna rendere obbligatoria la dicitura ‘da allevamento intensivo’ per tutti i prodotti a base di carne, così da esplicitare il modo di allevamento e gli impatti associati, contribuendo a rompere quella distanza cognitiva che si è venuta a creare tra la carne che consumiamo e l’animale da cui proviene”.
*Il dato si riferisce all’indice di conversione calcolato per l’animale vivo.
Il rapporto è stato realizzato grazie al sostegno della The Nando and Elsa Peretti Foundation, nell’ambito del progetto “Scuola diffusa della Terra – Emilio Sereni”.
Tratto da: associazioneterra.it